giovedì 29 dicembre 2016

E come vide Siena in Montaperti,


nel prendere le palle siamo esperti! Lo cantava Riccardo Marasco in Palle in costume (1990). Si torna a parlare di Montaperti grazie a un libro appena pubblicato dal mio amico Fabrizio Scheggi. S'intitola Il Mugello nel libro di Montaperti. 
Probabilmente la storia la conoscete. Tra le conseguenze della battaglia che il 4 settembre 1260 oppose fiorentini e senesi con la vittoria totale di questi ultimi, ci fu il sequestro come preda di guerra di un corposo fascicolo di fogli pieni di nomi e numeri. Fascicolo di cui per secoli non si comprese il valore. Dopo essere rimasto a Siena per 300 anni, tornò a Firenze nel 1570. Solo nella seconda metà dell'800 lo storico e archivista Cesare Paoli,  cui tutti dovremmo essere grati, lo esaminò, ricompose, riordinò, fino a trascriverlo e farlo stampare dal Gabinetto Viesseux nel 1889. Oggi è scaricabile su Internet e ha avuto una ristampa anastatica nel 2004.
Il Libro di Montaperti non è un volume poetico. È quanto di più prosaico si possa immaginare. È una serie di registri. Elenchi su elenchi, nomi, luoghi. E poi leggi, emanazioni, regolamenti. Ma è anche quasi un elenco telefonico di Firenze & Contado anno 1260, con in omaggio i modelli Unico, 740 e/o 730 di tutti i suoi abitanti, già compilati. Renato Stopani ne analizzò alcune parti in Il contado fiorentino nella seconda metà del dugento (Salimbeni 1979). Scrive Stopani:

Il Libro di Montaperti (...) consta di vari registri, quaderni e carte che servirono ai diversi uffici militari e amministrativi dell'esercito fiorentino nel 1260, in occasione della guerra contro Siena. (...) Alcune parti del libro riguardano in particolare i popoli ed i comuni del contado e costituiscono un documento prezioso, non solo per la determinazione topografica, politica ed ecclesiastica del territorio fiorentino, ma anche per una valutazione comparativa del potenziale economico dei vari popoli. Specialmente due registri ci permettono di delineare l'amministrazione del contado nell'anno 1260: si tratta di una lista che enumera i nomi dei fornitori di pane all'esercito fiorentino, e di un altro elenco nel quale sono registrate le parrocchie rurali e le quantità di grano che ciascuna di esse doveva fornire per l'approvvigionamento di Montalcino assediata dai senesi.

L'analisi che oggi compie Fabrizio Scheggi è diversa da quella compiuta da Stopani (per chiarire: non si fanno concorrenza, peraltro a trentasette anni di distanza), ed è concentrata sulla regione mugellana. Non c'è da sorprendersene: Fabrizio è nato sulla Bolognese, ha abitato per 15 anni a Pietramala (Firenzuola) e adesso vive a S. Maria a Vezzano (Vicchio). La sua mamma nacque a Ripafratta (Le Ville, Borgo S. Lorenzo), il babbo a Marzano, sopra Grezzano (sempre Borgo S. Lorenzo). Suo figlio lavora a S. Piero a Sieve; uno zio, oggi felicemente in pensione, ha fatto per anni il guardiacaccia presso Villa Le Maschere (Barberino).

Fabrizio Scheggi
Appassionato da sempre di storia del Mugello a tutti i livelli, ha già pubblicato diversi libri, tra cui spicca il bel romanzo biografico (o biografia romanzata?) La panacea nella pigola (Noferini 2011). Per la realizzazione del Mugello nel libro di Montaperti è stato necessario un lungo lavoro, i cui risultati sono non di rado sorprendenti ed inediti. Non voglio ovviamente anticipare il piacere della lettura, anche se non è un giallo, ma mi limito a sottolineare un esempio tra i non pochi che ho trovato degni di nota. Fabrizio ha fatto emergere dall'esame (oculato) del testo originale la presenza di roccaforti che andavano a formare una sorta di cintura alla base degli Appennini, da Barberino a Vicchio (che non c'era ancora). Ma diverse di queste postazioni sono state del tutto cancellate, probabilmente non da assalti nemici, bensì da un inarrestabile oblio. Fabrizio ha faticato non poco per riuscire a localizzarle. I loro nomi non compaiono, non solo su testi sacri come il Dizionario geografico storico della Toscana di Emanuele Repetti, pubblicato dal 1833 in poi, ma neanche su testi recenti come il minuziosissimo Forme e strutture del popolamento nel contado fiorentino di Paolo Pirillo (Olschki 2008). Un buon esempio è Capaccio, a nordovest di Vicchio. Nel 1260 doveva costituire una postazione fortificata di importanza strategica non indifferente. Il toponimo è miracolosamente sopravvissuto, ma adesso sta a indicare un unico casolare su un'altura.

La località Capaccio
Ciò che ne consegue è la constatazione del destino imprevedibile subìto nel corso del tempo da luoghi, località, agglomerati, interi paesi. Castelli imponenti, ben presidiati e forse inespugnabili dalle truppe nemiche, furono poi espugnati da una sopraggiunta incuria, causata  da chissà quali cambi di strategie, o da disinteresse, o da mancanza di soldi. Seppelliti. Dimenticati. Laddove gruppi di due o tre case venivano a espandersi per formare comuni(tà) che, quale più quale meno, crescevano sempre più di dimensioni e di rilevanza economica, sociale, strategica. Fino ad oggi? Dipende. Se un'epidemia o una scorribanda o una carestia ne falcidiava gli abitanti, o se a breve distanza veniva fondata una terranova, costruito un ponte, deviata la strada, tutto era rimesso in discussione. Fabrizio elenca a un certo punto tutte le località mugellane rammentate nell'Archivio viatorio, in stretto ordine alfabetico. Hai voglia a essere un grande conoscitore di storia locale. La maggior parte di questi nomi risultano del tutto sconosciuti. Dov'era Rascio? Dov'era Saletta? E Carmignano (non c'entra con il comune pratese)?
Buona lettura. Il Mugello nel libro di Montaperti è al momento disponibile nelle librerie mugellane, e presto - mi si assicura - potrà essere ordinato sul web. Chiedete di più al mio amico Francesco Noferini

sabato 24 dicembre 2016

Buon Natale!


Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grande avvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del Sole.
(Mario Rigoni Stern, Arboreto salvatico, Einaudi 1991)

giovedì 22 dicembre 2016

GABBATO LO SANTO 1. Barduccio Barducci

Ce ne sono parecchi. Molti più di quanto si pensi. Avevano condotto una vita, per l'appunto, santa, ed erano stati dei punti di riferimento per lo più in quelle che oggi chiameremmo singole realtà territoriali. Canonizzati quando ancora il procedimento era relativamente semplice e bastava il parere di un sinodo o addirittura di un solo vescovo, senza trafile, processi e proclamazioni in Piazza San Pietro. Canonizzati dunque, o anche solo beatificati, a furor di popolo. Poi, all'entusiasmo dei primi anni post mortem, faceva magari seguito uno scemare della devozione, in parte arginato dalla presenza di reliquie, se c'erano. Se non c'erano, l'oblio scendeva implacabile come il tempo. Restavano, e spesso restano tuttora, riferimenti su vecchi testi, nomi di qualche località, piccole frazioni di paese, qualche edificio sacro: oratori, chiese, non di rado anche pievi.


Giuseppe Maria Brocchi realizzò, a partire dal 1742, le sue ponderose Vite de' Santi e Beati fiorentini in tre volumi. Il secondo e il terzo sono dedicati a Quei Santi e Beati che hanno ab immemorabili il pubblico culto alle loro reliquie ed immagini quantunque di Essi non si faccia memoria nel Martirologio Romano e non se ne celebri la Festa con Messa ed Ufizio. Superano il centinaio. E son solo quelli fiorentini!
Barduccio Barducci, che non è nemmeno chiaro se fosse stato canonizzato, è apparentemente uno dei più sfortunati. Forse per questo mi è rimasto simpatico. Racconterò di altri, in futuro, ma parto da lui. Apparteneva a una famiglia benestante fiorentina che abitava nel quartiere di S. Spirito. Le notizie su di lui sono scarne. Giovanni Villani lo rammenta in un passo delle Croniche. Eccolo.


Sul suo amico e compagno di imprese di carità Giovanni da Vespignano le notizie sono (ma di poco) più ampie, anche perché le sue reliquie sono giunte fino a noi. Ma la Chiesa di S. Spirito de' Padri Eremitani di S. Agostino, dove Barduccio fu sepolto, andò a fuoco il 21 marzo 1470, e della sua salma non rimase traccia. Non rimase traccia neanche del suo operato miracolistico in vita o in morte. Per lui non ci fu scampo. Cadde nel dimenticatoio.
Non ci fosse stato il passo del Villani, non sarei neanche qui a scriverne. Ma c'era, e non si poteva prescinderne. Storici e agiografi ebbero problemi non indifferenti. Silvano Razzi, nelle sue Vite de' Santi e Beati toscani (1593), poté basarsi solo su un manoscritto del Monastero di S. Pier Maggiore, relativo più che altro a Giovanni, in cui è riferito che Barduccio sarebbe venuto a mancare all'età, decrepita per l'epoca, di 96 anni.
Domenico Maria Manni faticò anch'egli non poco per trovare qualche notizia in più su Barduccio. Citò le parole di un contemporaneo, Simone della Tosa (ca. 1300-1380), il quale aveva scritto di "S. Varduccio; che stava di casa oltrarno; e che alla sua morte concorse a vederlo a S. Spirito tutta la città". Personaggio celebre e stimato, dunque. Vi era poi un calendario antico che poneva sotto l'ottava di Pasqua di Resurrezione il Beato Barduccio, ed è la festa a a Santo Spirito. Sempre citate da Manni le parole di Franco Sacchetti. Nella novella n. 157 scrive:

"E così avviene oggi nel mondo, che li signori e gli altri viventi sono sì vaghi di cose nuove che se elli postessono, muterìano la signoria del cielo, come spesso mutano quella delle terre. Abbiamo li santi canonizzati e cerchiamo di quelli che non sappiamo se sono. Abbiamo il nostro Signore Jesu Cristo, la sua Madre, gli Apostoli e gli altri maggiori del Paradiso, e andremo dietro a san Barduccio." 

Parole per nulla lusinghiere, certo. In realtà, Sacchetti poneva un problema che davvero esisteva all'epoca (fine '300): la proliferazione di culti locali che i fedeli sentivano come più vicini e concreti, a scapito però di quelli universali della cristianità. La Chiesa stava già correndo ai ripari, anche per  riaffermare la propria centralità, promuovendo processi di canonizzazione più complessi e severi da un lato, istituendo la figura intermedia del beato dall'altro, in modo da non scontentare i fedeli. A rimetterci è il nostro Barduccio, che qui è usato come esempio di santo da quattro soldi, ultimo arrivato.
Eppure...
Eppure, secondo una interpretazione che peraltro non ebbe seguito, Barduccio, insieme con l'amico Giovanni, ebbe una velata citazione da parte di Dante. Sempre Manni riporta che "di ambedue [l'altro è Giovanni] intendeva a prova il celebre Magliabechi, che avesse parlato Dante nel Canto VI dell'Inferno, quando per la domanda da lui fatta a Ciacco se in Firenze v'era alcun uomo giusto, gli fu risposto: 


Giusti son due, ma non vi sono intesi;

cioè sono incogniti ai popolari". 
Sul celebre verso 73 ci sono state varie interpretazioni, e nessuna accettata unanimemente. Dante si riferiva a qualcuno in particolare? O parlava in senso generico, come dire che di giusti ce ne sarà un paio sì e no? Non è chiaro. Brocchi nota che l'aggettivo giusti è lo stesso usato da Giovanni Villani. All'epoca in cui si svolgono i fatti della Comedia i due benefattori laici dovevano essere in piena attività, e Dante sicuramente li conobbe. La certezza che Magliabechi avesse ragione e che i due giusti fossero davvero Giovanni e Barduccio non si può avere. Ma riconosco che mi piace crederlo.  

lunedì 19 dicembre 2016

Pietro Nelli da Rabatta, dopo l'oblio



Il pittore Pietro Nelli da Rabatta non fu forse un grande innovatore. Fu discepolo – alla lontana - di Giotto, subì l'influenza di Bernardo Daddi e lavorò come un bravo professionista che seppe non solo farsi apprezzare, ma anche far fruttare abbondantemente la sua abilità. Guadagnò senza dubbio cifre ragguardevoli. Fece sposare la figlia a un notaio con cinquecento fiorini di dote, che non erano bruscolini. 
Dopo la morte, però, fu dimenticato del tutto. Capitò anche a Vivaldi. Non compare nelle Vite del Vasari. Il Baldinucci, nel XVII secolo, nelle sue sterminate ‘notizie de’ professori del disegno dal Cimabue in poi’, lo ignorò. Solo nel 1872 Gaetano Milanesi pubblicò una ricevuta di pagamento per la parte superiore di una tavola (foto d'apertura) raffigurante la Beata Vergine con angeli apostoli e santi, custodita allora nella sacrestia della Pieve di S. Maria all’Impruneta e oggi - con vistose ferite causate dall'ultima guerra - sull'altar maggiore. La ricevuta era firmata piero di nello.

S. Caterina d'Alessandria.
Museo di Maastricht
Milanesi ne fece tornare alla luce la figura, pur basandosi su pochi elementi biografici. Scrisse in una breve monografia: “Pietro di Nello o Nelli fu da Rabatta, villaggio presso Borgo San Lorenzo di Mugello, e nacque intorno al 1345. Si matricolò tra i pittori all’Arte de’ Medici e Speziali ai 28 di aprile del 1382, abitando allora in Firenze nel popolo di San Pier Maggiore; e nel 1411 fu scritto alla Compagnia de’ Pittori fiorentini, essendo del popolo di Santa Maria Alberighi.”. Ad ogni modo non dovette perdere i contatti con la terra d’origine, dato che sposò la figlia di uno stovigliaio di Rabatta, dalla quale ebbe a sua volta la figlia di cui abbiamo detto. Possedeva sempre a Rabatta un podere che, non avendo figli maschi, donò alla Compagnia del Bigallo.
La maggioranza delle sue opere era, allo stato delle conoscenze del Milanesi, andata perduta. Lino Chini, nel 1875, citò quasi per intero lo scritto del Milanesi in una rara “Vita di Giotto” (messami gentilmente a disposizione da Aldo Giovannini) e nella sua Storia del Mugello. Niccolai, nella sua Guida del Mugello (1914), riportò: “Soavità celestiale ispirò alle sue figure Piero Nelli da Rabatta (1345-1416), che aveva dipinto per la Chiesa di Santa Maria a Cardetole e per i Frati di San Francesco del Borgo San Lorenzo”. In realtà morì nel 1419, come affermato da Milanesi e confermato da Marco Pinelli in una nota del 1994 su Il Filo.
La riscoperta di Pietro Nelli è andata avanti in epoca recente, e Carlo Celso Calzolai, nel 1974, lo definì ‘il primo fra tutti gli artisti mugellani’. Evidentemente considerava Giotto e l’Angelico come fuori concorso. A Pietro sono ora attribuite numerose opere: ne sono esempi alcuni affreschi di Santi in San Miniato a Firenze (nelle guide degli anni 30 risultavano di autore ignoto).

Gli affreschi di San Miniato

Il tabernacolo ora a S. Maria Mater Dei al Lippi.
Sempre a Firenze l’affresco, precedentemente attribuito a Paolo Uccello, del tabernacolo di Lippi e Macia, e ora nella chiesa di S. Maria Mater Dei al Lippi. All’Impruneta, il polittico Madonna con bambino e Apostoli di cui parlava il Milanesi. Alcuni affreschi nella chiesa di S. Pietro in Palco. Una delicatissima Annunciazione e un Cristo in Pietà nella Pieve di San Pietro a Ripoli.

Cristo in Pietà, Pieve di S. Pietro a Ripoli

A Bagno a Ripoli contribuì agli affreschi nella scarsella dell’Oratorio di Santa Caterina, in collaborazione col Maestro di Barberino. In seguito, Spinello Aretino decorò la seconda navata con uno dei più straordinari cicli affrescati mostranti la storia della titolare dell'Oratorio. Dimenticato dalla storia come Pietro Nelli, anche l’Oratorio andò incontro a un degrado che pareva inarrestabile, al punto che all’inizio degli anni 80 del secolo scorso era adibito a pollaio e fienile. Al termine di un lungo, meticoloso restauro, dal 1998 è stato restituito alla meritata ammirazione del pubblico nonché alle attività culturali (è sede di mostre, concerti, convegni), e ai matrimoni di lusso.

Disputa di Caterina coi filosofi, oratorio S. Caterina, Bagno a Ripoli
Resta poco, invece, del lavoro di Pietro Nelli in patria: del trittico affrescato nella Chiesa di S. Francesco a Borgo S. Lorenzo fu in passato sacrificata la parte destra, e anche per la rimanente i lavori di restauro, pur ammirevoli, non hanno avuto del tutto ragione dei danni causati dal tempo e dall'incuria dei secoli scorsi. Secondo Niccolai era stato realizzato nel 1382 per monna Niccolosa del Maestro Lodovico. "Vi aveva esso pure", continua Niccolai, "per dodici fiorini d'oro, affrescato un'altra parete, come rilevasi anche da un'iscrizione consunta: Petrus Nelli hoc opus fecit". Di quest'ultima opera, purtroppo, come dell'iscrizione, non è rimasta traccia.

L'affresco nella Chiesa di S. Francesco a Borgo S. Lorenzo

mercoledì 7 dicembre 2016

Filippo Benci


Filippo Benci è fiorentino. Si comprende già dal cognome. Sua mamma poi si chiamava Pucci. Vive a Campi Bisenzio, ma, precisa quasi con orgoglio, è la prima casa oltre il confine con il Comune di Firenze in Via Pistoiese.
Classe 1944, è pittore autodidatta.
Il suo arrivo alla Casa di Giotto, relativamente recente, ha portato nuova linfa al lavoro e alla ricerca degli artisti che gravitano intorno all'Associazione Giotto e l'Angelico. Susi La Rosa ha sempre riconosciuto, o meglio rivendicato l'importanza dell'incontro con lui per lo sviluppo del suo percorso.

Locandina della prima mostra
Quanto al percorso di Filippo, parte da lontano. La sua prima mostra risale al 1964, e si tenne in Palazzo Medici Riccardi. Al momento in cui scrivo sono state appena inaugurate due collettive cui ha partecipato: una al Palazzo Ghibellino di Empoli, l'altra ancora a Vespignano. Nel mezzo, un'attività a volte interrotta da ragioni contingenti, come capita a molti artisti, ma poi sempre ripresa nel punto esatto in cui si era fermata, e che evolve da un figurativo quasi astratto per risolversi decisamente verso l'astratto.

Un'opera del primo periodo

Lo si comprese bene in occasione della sua personale tenuta sempre a Vespignano nel maggio 2015, quando feci la sua conoscenza. Filippo fece collocare al piano terra le opere figurative giovanili, e al primo piano quelle più recenti. Appariva inconfutabile che queste ultime erano il frutto di un lungo maturare attraverso lunghe riflessioni dubbi correzioni ripensamenti. E che il salto di espressività era apparente.

Vespignano, 2015

Scrissi allora: "Le realizzazioni degli ultimi anni, ricche di crepe, infiltrazioni, graffiti, spaccature della materia come dell'animo, rimandano a quesiti posti dalla storia agli abitanti del XXI secolo e non ancora risolti, e sono accompagnate da didascalie a volte fondamentali (es. una citazione di Primo Levi)".

Con Fabrizio Borghini
"Nella sua pittura" si legge sulla pagina a lui dedicata sul Catalogo degli Artisti del Mugello curato da Mauro Baroncini e Lucia Raveggi "l'uomo è assente figurativamente eppure nello spazio dei suoi dipinti si apre un mondo pieno di colori, segni, stratificazioni e corrugamenti materici, che trattengono, come impronte simboliche nella loro sintesi estrema, le tracce del suo passato nel tempo".

Je suis Julia - 2011 - contro la violenza sulle donne
Per il prossimo anno, due ulteriori esposizioni di primo livello attendono Filippo Benci. Una al Palazzo dei Congressi di Casole d'Elsa, dove a partire da fine giugno sarà presente con i colleghi Susi La Rosa, Sergio Turi e Silvano Silvani. L'altra sarà una personale particolarmente impegnativa che si inaugurerà il 5 giugno, in un luogo dal fascino straordinario: lo scriptorium dell'Abbazia di San Galgano.  Dice sarà la sua ultima mostra, ma naturalmente nessuno gli crede. Ad ogni modo Filippo vi sta già lavorando, e mi ha inviato in anteprima l'opera qui sotto. Ancora una volta, più che eloquente il titolo: Bomba d'amore. 




sabato 3 dicembre 2016

Fiume di parole accese: Ivo Guasti

Mi giunge, graditissimo, l'ultimo libro di poesie di Ivo Guasti, dal titolo Altrove (ed. Polistampa, presentazione di Alessandro Borsotti).
Conobbi Ivo (Barberino di Mugello, classe 1933) a Borgo S. Lorenzo nel novembre 2011. Per iniziativa dello scrittore Tebaldo Lorini e dell'attore Marco Paoli, suoi grandi amici, era stato allestito in Villa Pecori uno spettacolo dedicato alle sue poesie: ne aveva già pubblicate allora una trentina di raccolte. I suoi brani erano interpolati da citazioni di suoi illustri colleghi. Brecht, Neruda, Pavese, Garcia Lorca, Raphael Alberti, Edgar Lee Masters. E ad ognuno di essi si riallacciavano i (con)seguenti versi di Ivo. Fu un grande successo.

Da sin. Tebaldo Lorini, Ivo Guasti, Marco Paoli
Ivo ha proseguito la sua produzione poetica, cui è venuta ad aggiungersi, nel 2015, una corposa autobiografia intitolata Finché dura il tempo (Polistampa), scritta in collaborazione & conversazione con Alessandro Borsotti. Scrissi allora: "Guasti racconta le sue vicende personali e familiari in un paese del Mugello che cambia (im)percettibilmente lungo i giorni, i mesi, gli anni; della sua lunga militanza in un Partito Comunista in cui le discussioni e i dissensi erano più numerosi di quanto non si potesse pensare, anche se nessuno allora si sognava di fare sgambetti ai compagni. I suoi incontri (faccio un solo nome: Umberto Terracini) e le sue amicizie (...) Racconta del suo lavoro in Provincia, degli eventi culturali da lui organizzati e conseguentemente della quantità sbalorditiva di personalità da lui conosciute. Anche qui mi limito a nominare Rafael Alberti, la cui influenza sull’attività poetica di Ivo sarà determinante.". Insomma, viene tratteggiata la base umana e culturale da cui origina il rapporto privilegiato di Ivo con le parole (concetto da precisare, come vedremo).
Nel 2015 uscì Scrivere il tempo, edito da Le mimose, illustrato o meglio integrato dalle immagini di sculture di Adriano Bimbi. Lo recensii concludendo che faceva restare col desiderio che presto arrivasse una nuova raccolta di versi di Ivo Guasti. Ed ecco Altrove.
Le dimensioni ridotte del volume mi hanno portato d'istinto a paragonarlo a un bonsai. Non mi sbagliavo. Sfogliandolo, ci si accorge che le quarantanove poesie che si susseguono sono sì di radice inequivocabilmente occidentale, ma si avvicinano, spesso per brevità, spesso per temi, sempre per sensibilità, agli haiku giapponesi. Ne copio una.

alla fine del giorno 
qualcosa rimane
la luna
che canta di luce

Il titolo del post è un altro suo verso. Ancora più essenziale, ancora più scavata, più limata, più smussata, la poetica di Ivo Guasti risulta sconcertante per la capacità di dare nuova linfa vitale a parole abusatissime. Non so se qualcuno ricorda una bella serie di Caroselli, sì: Caroselli degli anni '70, in cui Anna Maria Guarnieri spiegava e soprattutto dimostrava da par suo che "anche la parola più banale, più logorata dall'uso (addio, no, stasera, dimmelo) può esprimere un'emozione, un sentimento, uno stato d'animo". Guasti si muove in modo sovrapponibile. Ci fa comprendere, una volta di più con Altrove, che la poesia non è nelle parole, ma nel rapporto tra le parole. 
Buona lettura!