martedì 30 maggio 2017

IL POVERELLO E IL DIPINTORE: appuntamento alla Casa di Giotto


Se il pomeriggio di venerdì 2 giugno ne avete la possibilità, vi aspetto alla Casa di Giotto a Vespignano (Vicchio, FI). Grazie al Comune di Vicchio e all'Associazione Giotto e l'Angelico, insieme con gli amici di SiparioAperto Antonio Rugani, Nadia Capocchini e Saverio Pivi, racconteremo Il Poverello e il Dipintore. Ovvero alcuni momenti delle storie di due personaggi che, vissuti in epoca tanto lontana, godono ancora oggi di fama universale. Meritatissima.


La mia parte riguarderà la figura di Giotto, e in particolare, ma non soltanto, i suoi affreschi della Basilica Superiore di Assisi, e si alternerà a letture sulla vita di S. Francesco tratte dal testo teatrale Il Poverello d'Assisi, opera dell'attore e drammaturgo francese Jacques Coupeau. Vi sarà un ampio supporto d'immagini. Non mancherà il Cantico di Frate Sole.
Non sarà una vera conferenza, non sarà una semplice lettura di un testo teatrale, ma, ci auguriamo, sarà un incontro divulgativo nel quale cercheremo di dare un piccolo contributo a far comprendere ulteriormente il ruolo che Giotto di Bondone e Francesco di Bernardone, ognuno diciamo così nel suo campo, hanno avuto nel progredire non solo dell'arte e della religiosità, ma della civiltà umana tout-court.
L'appuntamento è dunque per venerdì 2 giugno, presso la Casa di Giotto al Colle di Vespignano. Buono spettacolo!

Giotto. Il sogno di Innocenzo III. Assisi, Basilica superiore.


sabato 27 maggio 2017

I menagramo al tempo del Granduca


Fu un episodio curioso quello avvenuto nel 1687 durante uno dei tentativi di istituire a Firenze un Seminario per i chierici.
Tentativi che in passato non erano mancati. Papa Eugenio IV, rifugiatosi a Firenze nel 1433, assunse anche la carica ad interim di Arcivescovo data la sede allora vacante. Conscio dei limiti culturali del clero locale, fondò un Collegio dei Chierici, che da lui prese il nome di Collegio eugeniano. In sostanza, a trentatré giovani avviati alla vita religiosa, particolarmente meritevoli, veniva assegnata una sorta di borsa di studio per la frequentazione del collegio stesso. In seguito, il numero di studenti aumentò e il collegio conquistò un notevole prestigio. Ma non rispondeva al tipo d'istituto che era stato poi decretato dal Concilio di Trento (1545-1563), perché era un po' come le scuole attuali: i suoi chierici si riunivano per il canto corale e per la scuola, e poi tornavano alla libertà della vita cittadina.

Via S. Elisabetta
Nel 1657, presso la Compagnia di S. Benedetto Bianco, Lorenzo Antinori aveva fondato una scuola di spirito per chierici sotto la protezione dell'Immacolato Concepimento della Vergine. Sempre l'Antinori, intanto divenuto sacerdote, aveva istituito, nella chiesa di S. Salvatore, un'altra simile scuola, da cui nel 1663 nacque la congregazione dei Sacerdoti di Gesù Salvatore. Questi ultimi nel 1671 aprirono una scuola di filosofia e musica non distante dalla Cattedrale, sull'angolo di via delle Oche con via S. Elisabetta. L'attività fu presa in mano da un tal Dr. Jacopo Mescoli. I chierici aumentarono di numero al punto che cinque anni dopo dovettero trasferirsi di fronte a Via della Morte, oggi Via del Campanile.

Via del Campanile,
già via della Morte, oggi... 

L'Arcivescovo di Firenze era all'epoca Monsignor Jacopo Antonio Morigia. Milanese, colto e illuminato, forte di precedenti esperienze nella sua città d'origine, volle darsi da fare per la realizzazione di un convitto per i chierici che rispettasse i decreti tridentini. Il Granduca Cosimo III gli concesse quello che Morigia riteneva per un simile istituto il luogo più adatto, allora occupato dall'Opera di S. Maria del Fiore, presso la chiesa di S. Benedetto nella piazza omonima, sempre in prossimità della Cattedrale.
Non si sanno con precisione i motivi per cui l'iniziativa non era guardata con grande favore. Può darsi che Mescoli vedesse nel nuovo Seminario un pericoloso concorrente, e avesse iniziato a spargere maldicenze. O l'impresa sembrava un'opera di proporzioni superiori ai mezzi, soprattutto finanziari. Di sicuro, l'ostilità nei confronti dell'Arcivescovo e/o del'erigendo seminario si manifestò a tutto tondo il giorno della posa solenne della prima pietra.
Era il 20 aprile 1687. Durante la cerimonia il coro intonò a cappella il Salmo 126:

Nisi Dominus aedificaverit domum,
in vanum laboraverunt qui aedificant eam.

Ovvero: Se il Signore non edifica la sua casa, altri inutilmente si affaticano per edificarla. 
Il maestro di cappella cominciò a far ripetere, con lunghissime modulazioni, fino allo sfinimento, le parole in vanum laboraverunt. I presenti, dapprima in pochi qua e là, poi sempre più numerosi, con un crescendo non molto opportuno in simile frangente, iniziarono a sorridere, poi a ridacchiare, poi a ridere, poi a sghignazzare apertamente. 

Il malaugurio non tardò a concretizzarsi. Sette anni e parecchie difficoltà dopo, l'Arcivescovo gettò la spugna. Restituì all'Opera di S. Maria del Fiore l'antica sua residenza e ne ottenne in cambio le case che allora essa occupava. E dovette ricominciare da capo. Nonostante le energie profuse, non riuscì nel suo intento. Anche il suo successore Leone Strozzi non ebbe maggior successo. Si dovette attendere la nomina ad Arcivescovo di Monsignor Tommaso Bonaventura dei Conti Della Gherardesca, e il 1712, perché Firenze avesse il suo Seminario. 
Il Collegio Eugeniano andò avanti in modo indipendente. Nel 1734 si trasferì nei locali dell'antico Studio fiorentino, in via - appunto - dello Studio, e all'inizio del '900 il Cardinale Mistrangelo gli dette la forma di convitto. Nel 1937 il Cardinale Elia Dalla Costa lo soppresse facendolo confluire nel Seminario Fiorentino. Il quale, dopo vicissitudini non sempre del tutto tranquille (l'occupazione napoleonica è un esempio), nondimeno tuttora, accanto alla splendida chiesa di S. Frediano in Cestello (foto d'apertura), felicemente esiste. 

martedì 23 maggio 2017

La bischerata di S. Donato a Torri


Il 1° gennaio 1779 il Granduca Pietro Leopoldo emise un'ordinanza in cui si stabiliva che le parrocchie entro le mura delle città non potevano avere sotto la propria giurisdizione popoli di fuori le mura; e che  le chiese dipendenti da monasteri, ma in sede distaccata, dovevano essere officiate da un membro del clero secolare, ovvero un parroco o un curato, per giunta inamovibile.
Il provvedimento non preoccupò più di tanto la chiesa di S. Lucia al Prato, che avrebbe perso il territorio - appunto - fuori della Porta al Prato. E pazienza. Ci fu allarme invece in due monasteri: quello dei domenicani di Santa Maria Novella e quello delle monache di San Donato a Torri.

L'antica chiesa di S. Jacopino, nella piazza omonima,
in una foto di un centinaio d'anni fa
I frati di Santa Maria Novella avevano il patrocinio della piccola chiesa di S. Jacopo in Polverosa, che si trovava allora nella piazza omonima, fin dal 1250, quando il maestro Salvi di Benincasa della Burella, medico del popolo di S. Maria Novella, donò in testamento chiesa e territori adiacenti ai frati predicatori. La zona non era molto popolosa (ancora nel 1781 lo stato d'anime rilevava solo 36 focolari), e il convento non aveva problemi a inviare un frate a officiare le domeniche e le feste comandate. Un'operazione a costo zero, diremmo oggi. L'arrivo di un sacerdote fisso, che dal convento doveva essere mantenuto, significava una nuova e inaspettata spesa da affrontare per i Domenicani.
Le monache di S. Donato a Torri facevano già officiare da un curato, ma di loro scelta e - fatto non secondario - non inamovibile. Un curato imposto dall'alto e inamovibile poteva significare non solo una spesa in più anche per loro, ma soprattutto un notevole rischio di perdere l'autonomia, e il pericolo che gradualmente il convento divenisse in funzione della parrocchia e non viceversa.

Francesco Gaetano Incontri, Arcivescovo fiorentino, si trovò in notevole difficoltà. L'idea di donare S. Jacopo all'Arcivescovo stesso non piacque a quest'ultimo: sarebbero stati nuovi oneri per l'Arcidiocesi. Insomma, S. Jacopo in Polverosa sarebbe stato una palla al piede per tutti. Finché non si trovò una soluzione apparentemente valida per entrambi gli istituti..
I Frati domenicani donarono il patrocinio di S. Jacopino alle monache. La cura di S. Donato veniva soppressa e S. Jacopino diventava parrocchia, incamerando il popolo fuori le mura di S. Lucia sul Prato, quello delle Cascine dell'Isola e naturalmente quello di S. Donato.
Nella chiesa attuale di S. Jacopino, sulla controfacciata a destra, possiamo vedere la lapide che celebra il precedente ampliamento e poi la donazione di S. Jacopo in Polverosa, e che nella chiesa era stata affissa:



Pervetustum S. Iacobi Apostoli Sacellum
Quod ab anno MCCL PP. S. M. Novellae O.P.
Sivi Vindicarunt
In Hanc Ampliorem Formam
Anno MDCCXXXVI Restitutum
Monialibus S. Donati in Polverosa
 Cum Hortulo et Canonica Adnexis 
Libera donatione Concesserunt 
IV No. Octobr. MDCCLXXX

 Rog. Ser. Joseph Spinetti                                    


Ciò voleva dire che adesso i Frati domenicani avevano un grattacapo di meno, non dovendo più occuparsi di una chiesa piccola e all'epoca abbastanza isolata e distante dalle mura cittadine. Le monache di S. Donato, ora che non avevano più la cura in casa, vedevano salva la loro autonomia. Il parroco di S. Jacopino se ne stava a debita distanza e non poteva in alcun modo influenzare la gestione del monastero.

Tutto per il meglio, quindi? Decisamente no. La scelta delle monache si rivelò poi paragonabile a quella, ben più nota, compiuta dalla famiglia Bischeri.
Del patrocinio di S. Jacopino le suore ebbero, in sostanza, nessun onore e tutti gli oneri. Solo per pagare i lavori di ampliamento della canonica, le nuove suppellettili e i nuovi paramenti resi necessari dalla nuova condizione di parrocchia, dovettero vendere una casa in S. Lorenzo. Ed era solo l'inizio. Nel 1786, ad esempio, fu loro presentato il conto della costruzione di un cimitero unico per i popoli di S. Jacopino, S. Maria a Novoli e S. Cristofano, imposta dal Granduca. Ebbero dei grossi problemi col parroco Don Giacinto Frullani, che pretendeva il pagamento delle decime da una popolazione che in buona parte non metteva insieme il pranzo con la cena. Lo stesso Arciduca rifiutò. Frullani se ne andò sbattendo la porta nel 1792, e il parroco che lo sostituì - Don Paganini - se ne andò a sua volta nel 1797. Subentrò tale Don Gabrielli. Tutto ciò non giovava alla reputazione del convento.
L'idea di far sopprimere la cura di S. Donato si risolse poi in un boomerang, in quanto ormai tirava il vento favorevole alla soppressione degli ordini monastici e, se le monache fossero rimaste legate a una parrocchia, avrebbero avuto uno scudo di protezione in più. Nel 1797 l'Arcivescovo Antonio Martini passò il monastero e parte del popolo di S. Donato sotto la giurisdizione della Parrocchia di S. Maria a Novoli, del piviere di S. Stefano in Pane, dunque chiesa di campagna. La fine del Monastero di S. Donato a Torri sarebbe stata inevitabile anche se non fosse giunto il colpo di grazia, datato tra il 1808 e il 1810, delle soppressioni napoleoniche.
Nel 1825 l'area, già in stato di penoso abbandono, fu acquistata dai Demidoff, e iniziò un'avventura dai risvolti straordinari e di cui riparlerò, ma che comportò, tra le altre cose, la distruzione completa del convento, mentre la chiesa fu adattata a biblioteca.
Le andò di lusso. Teniamo presente, in termini di confronto, che lo splendido oratorio di S. Caterina all'Antella, ancora negli anni 80 del secolo scorso, era ridotto a pollaio. Ma anche questa è un'altra storia.

giovedì 18 maggio 2017

Un ricordo di Rossana Ronconi


Il 19 maggio 2015 Cristina Falcini scrisse un post sulla pagina Facebook della sua amica Rossana Ronconi. Lo copio e incollo.

La famiglia di Rossana fa sapere a tutti i suoi amici che Rossana dopo una lunga e combattuta malattia si è spenta....... Ciao grande Rossana sei stata e sempre sarai la nostra forza, voglio ricordarti così, nelle nostre uscite, nei nostri incontri tvb

Con Cristina Falcini, luglio 2014
"Mi resta difficile parlare al passato di Rossana", mi dice oggi Cristina. "Sembra che sia sempre qui con me... Era una forza. Nei suoi lavori c'è tutto il suo amore, nei suoi acquarelli la delicatezza, nelle ceramiche la sua forza. Donna, mamma e artista contemporaneamente. Mi manca molto, il suo essere riservata, la sua voglia di vivere, mi aiutano nei momenti difficili."

Con l'amica e collega Marisa Cheli nel 2008. "Spesso ci scambiavano per sorelle" ricorda Marisa.
"Era così bello se c'era anche lei", racconta Mauro Baroncini, "quando si organizzavano le giornate a dipingere tutti insieme. La sua allegria era contagiosa, e aveva uno straordinario senso dell'autoironia. Si poteva prenderla in giro, lei anziché arrabbiarsi rincarava!"

Con lo scultore Luca Mommarelli a una rievocazione storica, 2008
Rossana, di Borgo S. Lorenzo, studiò con Bruna Bigazzi. E frequentò diversi corsi tenuti da Giuliano Paladini, che comunque la considerò sempre anzitutto una grande amica. "Davvero fu la pittrice più simpatica che abbia mai conosciuto. Ci frequentavamo ancora prima della nascita dell'Associazione Giotto e l'Angelico. Era brava in tutto ciò che faceva, e dava il meglio sul fronte decorativo. Ricordo certi giaggioli dipinti da lei che levano il fiato. Ma il suo cavallo di battaglia era la ceramica." E infatti Rossana la ceramica la insegnò, a lungo e con passione. Patrizia Gabellini, pittrice, frequentò i suoi corsi. "Mai, in tutta la mia vita", mi ha detto, "ho trovato un'insegnante così generosa. Mi ascoltava, mi aiutava, mi accontentava in tutto, cose importanti e bischerate, per farmi progredire. E alla fine quasi si ritraeva, per paura di risultarmi troppo entrante!" Presso il Villaggio S. Francesco, tra Borgo S. Lorenzo e Scarperia, aveva uno spazio suo dove teneva i corsi. Qui, il 27 settembre 2015 gli amici e colleghi organizzarono una collettiva in commosso ricordo di Rossana.

Alcune creazioni di Rossana. Foto di Aldo Giovannini
Un'altra collettiva, quella tradizionalmente allestita a fine anno dall'Associazione Giotto e l'Angelico alla Casa di Giotto, nel 2015 fu giustamente a lei intitolata. Il posto d'onore fu concesso a uno dei suoi capolavori in ceramica, Le Stagioni.



Non è difficile prevedere altre, future iniziative in ricordo di Rossana. La sua pagina Facebook non è stata chiusa, e accoglie dediche sentite e sincere. Ne copio una, scritta per il suo compleanno: "Cara Rossana ti faccio i miei più affettuosi auguri certo che ti raggiungeranno in cielo. Finché una persona ha.in terra chi la ricorda sarà sempre presente in mezzo a noi."

Nel mio piccolo, per renderle omaggio, ho voluto inserire alcune delle foto che le avevo scattato, nelle quali, come vedete, il dato comune è il suo sorriso contagioso. Un sorriso che resta e resterà nella memoria di tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerla.  

mercoledì 17 maggio 2017

Tra arte e fede, oggi


Resterà aperta fino al 15 giugno, con orario 10 - 17, la mostra allestita nel salone Donatello della Basilica di S. Lorenzo a Firenze, intitolata Il cammino dell'uomo tra arte e fede - da Ugo Guidi a Igor Mitoraj. Se non conoscete questi due artisti, e non solo loro, l'occasione per scoprirli è imperdibile, e vi assicuro che non ve ne pentirete.
Chi aveva ammirato, tra 2015 e 2016, l'esposizione di Palazzo Strozzi Bellezza divina - tra Van Gogh, Chagall e Fontana, avrà l'impressione di trovarsi davanti a una sorta di logica prosecuzione di un lungo percorso sull'arte sacra, stavolta rivolto particolarmente agli ultimi 50-60 anni. Vincenzo Nobile, curatore della mostra, si schermisce in merito. Anzitutto, mi dice, si è circoscritto il contesto al figurativo. E infatti è presente una sola opera astratta, un marmo di Sylvestre intitolato Divertimento. "In secondo luogo, ho radunato opere di artisti che, pur provenendo dai paesi più disparati, hanno in qualche tempo, in qualche modo, avuto contatti con Pietrasanta". Che è un po' il suo quartier generale. Qui infatti ha sede la Nag-Art Gallery da lui diretta. Ma non pensate a qualcosa di limitante. Al contrario, ci si rende conto di come Pietrasanta - e dintorni - costituisca un autentico crocevia di correnti e tendenze artistiche. "A Forte dei Marmi esiste il museo dedicato a Ugo Guidi (1912-1977). A Pietrasanta è tuttora attivo l'atelier di Igor Nitoraj (1944-2014)"

La sezione dedicata a Ugo Guidi

Si viene introdotti da una serie di poster dedicati a Giovanni Michelucci - preceduti da uno dei suoi ultimi disegni originali -, che illustrano alcuni suoi edifici sacri. Non solo la celebratissima Chiesa dell'Autostrada, ma la Chiesa dei SS. Pietro e Gerolamo di Collina (PT), o la Chiesa dell'Immacolata Concezione di Longarone. Poi, come scrive Rossana Mezzavia sul bel catalogo, "Lo spazio espositivo di 800 metri quadri del salone Donatello è stato pensato da Vincenzo Nobile, architetto, come un organismo costituito da 11 elementi vitali, 11 spazi chiusi su tre lati dove accogliere in ciascun ambiente un artista 'storicizzato' di fama internazionale.". C'è però un dodicesimo spazio, non circoscritto ma distribuito uniformemente in tutta l'area come un tessuto connettivo, ed è dedicato a giovani artisti emergenti. Non importa se un paio di essi hanno superato la settantina, e molti sono emersi alla grande da tempo, come Giampaolo Talani: ciò che importa è che essi "rappresentano una sorta di linfa vitale, di sangue che irrora il corpo della mostra".

Gesù lavoratore di Ugo Guidi, 1958

L'introduzione del catalogo è curata da Antonio Paolucci, il quale cita Paolo VI, "quel grande intellettuale del Novecento":

Quando stupisce di fronte al miracolo del Vero visibile, quando si pone di fronte ai supremi interrogativi della vita, della morte, dell'altrove, quando si accosta all'immenso enigma dell'animo umano, l'arte è sacra, è 'naturaliter' religiosa.

Troverete infatti anche opere non strettamente sacre, ma che in qualche modo hanno un filo rosso che le collega alla fede. Perché - e queste sono invece parole di S. Giovanni Paolo II, riportate dal Cardinale Betori - l'arte, 

anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un'intima affinità con il mondo della fede, sicché, nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l'arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l'esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un'immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell'anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l'artista si fa in qualche modo voce dell'universale attesa di redenzione.

Afferma poi Paolucci: 

Il fatto è che l'artista contemporaneo chiamato a dipingere o a scolpire un 'fatto' delle Scritture, sa che tutto è già stato messo in figura, che le immagini accumulate dalla storia dell'arte lo sovrastano, lo circondano, in certo senso lo opprimono. (...) Tutto questo pone un problema delicato, di soluzione non facile. 

Tutti gli artisti presenti alla mostra sembrano davvero muoversi alla ricerca, serena o spasmodica, di questa soluzione. Ricerca che, attraverso sentieri diversi e talora antitetici, conduce a esiti che possono volta a volta lasciare perplessi, convincere, commuovere, esaltare. Ma che non possono far dubitare, è il caso di dirlo, della buona fede degli Autori. 

Daphne du Barry, Maddalena penitente

Così, ammirate le sculture di Daphne du Barry (foto d'apertura), classicheggianti quanto mozzafiato, ci si incuriosisce davanti ai Life vest di Tano Pisano (brulichii di giubbotti salvagente ovvero salvavita); e magari si resta sconcertati di fronte l'affollatissima Ultima cena di Vezio Moriconi e Lorenzo D'Andrea. 

LIfe vest di Tano Pisano


L'ultima cena di Vezio Moriconi e Lorenzo D'Andrea
O si resta storditi dalla versatilità rinascimentale, sovrapponibile solo alla sua commossa aderenza artistica alle Scritture, di un artista come Ugo Guidi, che manca al mondo da quarant'anni, e adesso ci pare, e in questo contesto ancor più, un assoluto classico del XX secolo. Mi limito a questi pochi esempi, presi arbitrariamente, per la qual cosa mi scuso con gli artisti non citati. Gli autori che hanno composto il sentiero di questa mostra hanno (di)mostrato quanto c'è ancora da dire su soggetti e argomenti destinati a non tramontare mai, e dunque peraltro a perenne rischio inflazione. Ma è un rischio che è necessario correre, e che si può superare a patto di considerare priorità assoluta l'urgenza espressiva e comunicativa, e rinunziare come fosse Satana alla ricerca della novità per la novità, o dell'avanguardia fine a se stessa, o ai piccioni imbalsamati per far notizia. Gli artisti presentati a Il cammino dell'uomo tra arte e fede ci sono riusciti.







martedì 9 maggio 2017

GABBATO LO SANTO 6. Il San Gaudenzio di San Godenzo


San Godenzo è un piccolo paese situato in posizione ai nostri occhi felice, agli occhi degli antichi molto meno, all'estremità nord orientale del Mugello. L'abbazia che porta il nome dello stesso Santo ha la meritata fama di essere stata sede di un evento storico epocale.

L'Abbazia durante la Festa del Patrono 2015

I fuorusciti e i Ghibellini giunsero quivi a convegno nel giugno 1302 e stipularono una sorta di accordo in cui la famiglia degli Ubaldini metteva a disposizione il plurifortificato castello di Monte Accianico come sorta di quartier generale per la guerra che Ghibellini e Guelfi bianchi intendevano muovere a Firenze. Questi, di contro, si impegnavano a risarcire gli eventuali danni subiti dagli Ubaldini. A questo evento era presente Dante Alighieri.

Scrive Emanuele Repetti su S. Godenzo: "Deve questo villaggio se non l'origine, di certo il nome ad una badia di Benedettini sotto l'invocazione di S. Gaudenzio monaco, le cui reliquie furono collocate in cotesta chiesa da Jacopo Bavaro vescovo di Fiesole e fondatore della stessa badia nel mese di febbraio dell'anno 1029".
Al medesimo vescovo si deve, secondo Giuseppe Maria Brocchi, l'architettura dell'edificio abbiaziale dotato di cripta, che riprende quelle della Cattedrale di Fiesole e della Chiesa di S. Miniato. Fino allora l'abbazia era stata Pieve, e infatti mantenne poi il fonte battesimale (nella foto), dopodiché dipese dalla Pieve di S. Bavello. Sempre Jacopo Bavaro donò l'abbazia e i relativi possedimenti dalla mensa vescovile ai frati. Possedimenti che furono ampliati nel 1070, quando il monastero fu consacrato dal vescovo fiesolano Trasmondo. Una serie di bolle pontificie, a partire da quella emessa da Pasquale II nel 1102, ricondussero il giuspadronato alla mensa vescovile fiesolana.


L'origine vera e propria della chiesa è però avvolta nella leggenda, così come il Santo cui è intitolata. Nonostante ci sia la salma. Sul sito www.santiebeati.it cercherete inutilmente il nome Godenzo, che è una sorta di contrazione di Gaudenzio (contrazione tra l'altro pericolosa se avete da scrivere di San Godenzo al computer, perché quasi sempre il correttore automatico lo trasforma senza pietà in un imbarazzante San Godendo). Col nome Gaudenzio figurano un beato e quattro Santi. Nessuna delle relative biografie corrisponde a quella del Gaudenzio di cui hanno narrato in tempi antichi Giuseppe Maria Brocchi, e in tempi molto più recenti il mio amico Alfredo Altieri nel suo bel volume dedicato a San Godenzo, pubblicato da Pagnini nel 2000.
Alfredo si avvale di una Leggenda di Santo Gaudenzio redatta nel 1860 da Anselmo di Piero Mazzi de' Servi. Brocchi fa invece riferimento a un'antica cronaca conservata nella stessa abbazia.

Cerchiamo di sintetizzare dalle due fonti la ricostruzione della vita del Santo. Proveniente con alcuni compagni (Marziano, Luciano, Ilario) da un paese campano, raggiunse l'Alpe in una località chiamata Ripa Alta al tempo di Teodorico (454-526), secondo Brocchi per sfuggire alle sue persecuzioni. Particolare questo decisamente poco verosimile. Ilario se ne andò (a S. Ellero?), gli altri rimasero con Gaudenzio - secondo Anselmo sopraggiunsero in seguito - e, trovato un sito detto Vossiano o Ursiano, alla confluenza di due torrenti uno dei quali era il Dicomano,  vi si stabilirono e vissero santamente da eremiti. Sulla vita non è che ci sia molto altro. Dopo la morte, poi - la cui data non è nota -, è un susseguirsi di narrazioni evanescenti e favolose, a base di visioni e apparizioni.
Molti anni dopo la dipartita del Santo, alcuni cacciatori che finalmente erano riusciti a uccidere un cinghiale che terrorizzava la zona, pare nell'855, ebbero la visione notturna di figure di bianco vestite, intorno al sepolcro di un santo. Ripresisi dallo spavento e segnato il posto, raccontarono il fatto all'allora Vescovo di Fiesole S. Romano (altra figura tutt'altro che ben tratteggiata) il quale, dopo tre giorni di digiuni, ebbe a sua volta la visione del sepolcro di S. Gaudenzio. Fatti gli scavi sul posto, fu ritrovata la salma, con l'iscrizione:

HIC IACET CORPUS B. GAUDENTII SACERDOTIS ET MONACHI.

Il corpo fu posto su un carro fatto trainare da una coppia di tori, che a un certo punto si fermò e non volle saperne di muoversi. Era il segnale per edificare in loco un tempio, ma fu giudicato fuori mano. Tentarono di costruirne uno altrove, ma misteriosamente non vi riuscirono. Un popolano ebbe allora un'altra visione: il tempio andava costruito dove si trovava una grande tela di ragno. Così fecero. Trovarono la tela. Qui sorse l'oratorio che poi sarebbe divenuto l'Abbazia di S. Gaudenzio. Brocchi vide, affrescati sulle pareti della cripta, gli episodi ora narrati. Oggi non ve n'è più traccia.
Ogni leggenda ha un fondo di verità, si dice. Ma quali verità possano esser celate dietro tutte queste storie da veglia davanti al focolare (absit iniuria verbis), davvero, vattelapesca.

Scrive il Brocchi che, ab immemorabilia, la festa di S. Gaudenzio veniva celebrata solennemente in abbazia il 26 novembre. In effetti, nel manoscritto di un antico martirologio di Beda il Venerabile, risalente al XII secolo e conservato alla Medicea Laurenziana (fondo Plutei 16.08), al VI Calendae di dicembre si trova menzionato S. Gaudenzio, seppure come confessore e non come monaco. Confessore, ricordiamolo, era definito, dal IV secolo in poi, chi proclamava la propria fede cristiana senza subire il martirio.


Sulll'Ordo Officiorum Ecclesiae Senensis, redatto dal canonico Oderico nel 1213 e stampato a Bologna nel 1766, sempre al 26 novembre, si legge: De Sancto Gaudentio Episcopo, & Confessore facimus tres Lectiones. L'ulteriore qualifica di Vescovo, certo, causa a sua volta altri dubbi sull'identità del Santo. Ad ogni modo, la popolarità del personaggio è confermata dalla presenza di un'altra chiesa a lui intitolata presso Vicchio, nella Pieve di S. Cassiano in Padule: quella di S. Gaudenzio a Loncastro, o a L'Incastro, ora abitazione civile.
Oggi, la festa di S. Gaudenzio si celebra l'ultima domenica di settembre. La sua storia ha, come abbiamo visto, tratti davvero troppo vaghi, non ci sono date precise, e di conseguenza egli non figura nel martirologio ufficiale. Nondimeno, la devozione nei suoi confronti da parte dei fedeli è tuttora molto sentita. Ancor più da quando, nel 2008, la salma fu riportata nell'Abbazia dopo una recognitio canonica e una sorta di restyling, come narrato in questo articolo da Danilo Zolfanelli.

La salma di S. Gaudenzio esposta in occasione della Festa del Patrono del 2015