sabato 30 settembre 2017

S. Lucia sul Prato


Via di S. Lucia sul Prato, che prosegue in Via degli Orti Oricellari, faceva parte del primo cardus minor occidentalis, e s'incrocia con Via Palazzuolo, che a sua volta costituiva parte del decumanus maximus in uscita dalla Porta Occidentale. Stiamo parlando, ovviamente, della Firenze romana e della antica centuriazione pure romana, che però lasciò sull'assetto della città un'impronta che permane ancor oggi a distanza di 2.000 anni suonati.  
Ci troviamo dunque in prossimità di un incontro fra due direttrici ortogonali, e non c'è da sorprendersi se a quest'altezza è presente un luogo di culto: la chiesa appunto di S. Lucia sul Prato. Come avevo spiegato qui (ed è solo un esempio), gli incroci tra il primo decumanus minor settentrionalis e i vari cardines minores sono tuttora caratterizzati dalla presenza di chiese, che per lo più furono edificate al posto dei pagi romani man mano che il cristianesimo si affermava soppiantando la vecchia religione pagana. Si può ragionevolmente pensare che dove oggi si trova la Chiesa di S. Lucia sorgesse in antico un pagus romano? Certamente sì, ma non si è mai riusciti a trovarne traccia.
Le stesse origini della chiesa si perdono letteralmente nella notte dei tempi. L'eruditissimo Giovanni Lami, nel suo monumentale Sanctae Ecclesiae Florentinae Monumenta (1758) ammette: "Ecclesia Sanctae Luciae, quando aedificata fuerit, ignoratur". In un documento del 1060 si parla della Ecclesia Sancti Michaelis et Sancti Eusebii, cui in seguito sarà annesso nella parte settentrionale della via un lebbrosario. I lebbrosi - malattia importata dalle crociate - andavano curati, ma a debita distanza da dove rischiassero di diffonedere la malattia, e all'epoca la zona era ben lontana dalle mura cittadine.

 La denominazione Sanctae Luciae ad portam, quae dicitur, Omnium Sanctorum, compare per la prima volta nel 1221, ma è nel 1251 che si parla diffusamente della Capellam Sancte Lucie de Sancto Eusebio, nel diploma di concessione dall'Arcivescovo Giovanni dei Mangiadori ai Frati Umiliati provenienti da S. Donato a Torri. Il fatto che ci si riferisca a una cappella fa supporre che la chiesa non fosse ancora parrocchiale, ma lo sarebbe divenuta ben presto, e proprio grazie ai Frati Umiliati. L'azienda da essi impiantata procurò lavoro e un notevole indotto, come diremmo oggi. Gli Umiliati costruirono case nella zona per accogliere i lavoranti, sicché la popolazione aumentò non poco, e già nel 1288 alcune case vendute risultavano positas in Populo Sancte Lucie Omnium Sanctorum.
Gli Umiliati, com'è noto, lasciarono poi la piccola chiesa di S. Lucia per costruire quella di Ognissanti e ivi trasferirsi, ciò che avvenne intorno al 1260. Mantennero tuttavia il dominio su S. Lucia fino al 1547. Subentrarono i Canonici di S. Salvatore. Erano stati chiamati da Guido Conte d'Urbino, il quale offrì loro nel 1420 il monastero di S. Donato a Scopeto, fuori Porta Romana. Da qui ebbero il nome di Monaci Scopetini. Il monastero fece purtroppo la fine di tutti gli altri in occasione dell'assedio del 1529: raso al suolo. I monaci furono trasferiti in S. Pier Gattolini (via Faenza), dove eressero un nuovo monastero. Che però non ebbe maggiore fortuna, trovandosi nell'area destinata dal Duca Cosimo alla costruzione della Fortezza da Basso. Per breve tempo i monaci alloggiarono in S. Caterina delle Ruote, poi Cosimo acquistò per loro dagli Umiliati, per 840 scudi, S. Lucia  e quivi gli Scopetini poterono trasferirsi definitivamente (per modo di dire, come vedremo).

Grandi lavoratori, anche in S. Lucia sul Prato gli Scopetini si dettero da fare per ampliare la chiesa e costruirvi di fronte un monastero. Nel 1551 fu ultimata la ristrutturazione della chiesa, ma il monastero non fu mai concluso. Lo si vede nella pianta del Buonsignori (1584), di fronte S. Lucia, con due muri di collegamento - forniti di portone - tra edificio e chiesa, che chiudevano la strada. I rapporti dei monaci con la popolazione non erano peraltro idilliaci, quelli coi vicini frati di Ognissanti ancora meno. Le cronache parlano di un diverbio con questi ultimi, avvenuto nel 1549, perché avendo la chiesa sottosopra per i lavori gli Scopetini volevano celebrare le funzioni di Pasqua in Ognissanti. Gli Umiliati si rifiutarono e, leggendo tra le righe (e finalmente vennero a tale che il popolo restò pieno di scandolo) si capisce che finì in una scazzottata la mattina di Pasqua.
Gli Scopetini andarono via già nel 1575 per trasferirsi in S. Jacopo Sopr'Arno. La chiesa ebbe a questo punto il suo quarto padrone (il primo era stato il Vescovo): i Padri Missionari di S. Vincenzo de' Paoli. Vi rimasero fino al 1720.
S. Lucia sul Prato fu infine affidata al clero secolare. Grazie in particolare alla sponsorizzazione dei marchesi Torrigiani che ne ebbero il patronato, furono intrapresi quei necessari lavori di riparazione e di ampliamento che portarono alla configurazione architettonica attuale, a croce latina.


Come ha cambiato spesso padroni, così la chiesa di S. Lucia sul Prato ha continuato nel corso del tempo a cambiare aspetto, subendo non di rado i capricci delle mode del momento. Giovanni Mannajoni, cui si deve anche la ristrutturazione del Teatro della Pergola (1809), realizzò nel 1838 la nuova facciata, al termine di una serie di altri lavori iniziati nel 1831. La consacrazione della chiesa avvenne nel 1885.

 Molti dei numerosi interventi compiuti nel XX secolo non sono risultati convincenti. Giampaolo Trotta, in Il Prato d'Ognissanti a Firenze (1988), parla di pesanti modifiche compiute dal parroco Don Adelmo Marrani sia prima della Seconda Guerra Mondiale sia dopo l'alluvione. Errori, sempre secondo Trotta, corretti in buona parte dal parroco seguente, Don Vittorio Cirri: in particolare "...è chiusa l'inutile, grande porta centrale aperta nella parete di fondo del presbiterio stesso, inserendo nella muratura di tamponamento il tabernacolo marmoreo di Scuola Fiorentina del XV-XVI secolo..."
Dagli anni Settanta la chiesa si è arricchita di opere moderne, tra cui la decorazione della cappella di sinistra, con scene bibliche in maiolica monocroma rosso mattone, opera di Aldo Rontini (1980), che circondano il fonte battesimale; e un affresco di Luciano Guarnieri raffigurante la Trasfissione, datato 1984.

Se posso esprimere un parere personale, ci sono almeno due opere veramente belle che da sole varrebbero una visita a questa chiesa forse sottovalutata: una Madonna col Bambin Gesù e S. Giovannino di Domenico Puligo (1492-1527) restaurata di recente, e l'affresco risalente al primo periodo della Chiesa, una Annunciazione ripresa - com'era praticamente d'obbligo all'epoca - da quella della SS. Annunziata. L'autore è un anonimo a cavallo tra XIII e XIV secolo, ma è sintomatico che nelle guide dell'800 venisse attribuito a Pietro Cavallini.


martedì 26 settembre 2017

15 marzo 1880: San Donato capitale del mondo.


"Ah, come vorrei trovare un uomo che si impegnasse per cambiare le mie collezioni ogni giorno!".

Come riportato dai cronisti dell'epoca, Paolo, o meglio Pavel Demidoff, Principe di San Donato, era un uomo perennemente insoddisfatto e continuamente in cerca di divertimenti ma, una volta che li aveva ottenuti, gli venivano subito a noia e ne cercava altri.

Pavel Demidov (1839-1885)
Pavel Demidoff apparteneva a una famiglia veramente ricca sfondata. Il capostipite Demid Antuf'ev faceva il fabbro a Tula, 200 km. circa a sud di Mosca, e il figlio Nikita (1678-1745) mise su una bottega artigiana d'armaiolo. Cesare Da Prato, nel suo ponderoso Firenze ai Demidoff (1886) racconta un aneddoto avvenuto durante la Grande Guerra del Nord (1700-1721), uno dei non pochi annosi conflitti russo svedesi. Lo Zar Pietro il Grande, trovandosi nei pressi di Tula ed essendoglisi guastata la pistola di precisione tedesca, la portò a riparare a Nikita. Questi, anziché ripararla, ne fabbricò una identica e di identiche qualità tecniche, lasciando il sovrano abbacinato. In seguito gli fornì una quantità esagerata di fucili al costo di 1 rublo e 80 copechi, laddove armi di pari qualità costavano minimo 12 rubli. Nikita e Pietro il Grande divennero amici. Nel 1712 sorse la prima fabbrica d'armi russa (l'Arsenale di Tula che esiste tuttora), cui è attribuito un ruolo decisivo nella vittoria finale della Russia contro la Svezia.
La discendenza dei Demidoff ha poi lavorato di lena, consolidando e ampliando a dismisura quello che poi è diventato un impero.
Li cita anche Boris Pasternak nel Dottor Zivago. Uno dei personaggi afferma:

"Il nostro cognome, Samdevjatov, non è altro che San Donato trasformato alla maniera russa. Pare che discendiamo dai Demidov. (...) I principi Demidov di San Donato. Ma forse è solo una storia, una leggenda di famiglia".

Ma, com'è noto, i Demidoff (translitterazione errata ma ormai nell'uso comune) non si sono limitati ad accumulare ricchezze inimmaginabili. Hanno creato lavoro, hanno promosso e diffuso arte e cultura, hanno profuso a piene mani opere di beneficenza e di mecenatismo. Il titolo di Principe di San Donato citato da Samdevjatov fu conferito dal Granduca Leopoldo II nel 1840 ad Anatoli Demidoff.

Anatoli Demidov (1812-1870)
Il padre di quest'ultimo, Nikolaj (1773-1828), era approdato a Firenze nel 1822 e, nel 1825, acquistò la tenuta di San Donato a Novoli, che era in stato di penoso abbandono. Dal 1828 iniziò la costruzione di Villa San Donato. Scrive Cesare da Prato:

Quel luogo isolato, povero, sprovvisto di tutto, fu in pochi anni trasformato in vero centro di ricchezza, chiamato il regno Demidoff, d'onde migliaia di persone trassero esistenza comoda e signorile: la celebrità che prese il suburbio da tale trasformazione si rammenterà sempre nei fasti dei fiorentini.

La chiesa di S. Donato divenne una biblioteca. La costruzione della villa implicò la distruzione del convento, di cui non è rimasta traccia. A San Donato, Nikolaj prima e Anatoli dopo, poterono tuttavia sfoggiare le loro capacità in primo luogo sul piano imprenditoriale: vi impiantarono un'azienda di produzione della seta a partire dai gelsi che dette lavoro inizialmente a 150 donne, poi diventate molte di più; in secondo luogo su quello artistico e culturale, creando una collezione da far invidia al Louvre; infine su quello della beneficenza, a cui neanche l'indolente Pavel rimase impermeabile. Nel 1878 una carestia ridusse i poveri di Firenze letteralmente alla fame. Pavel fece costruire la Cucina economica Elena Demidoff, un ordigno in grado di distribuire 399 razioni in 15 minuti, e completamente a sue spese: 32.000 Lire oro!
L'ingresso da via Corteccia di Villa Demidoff
oggi 'recuperata' per appartamenti civili.
D'altronde abbiamo visto che tipo era Pavel. Nel 1872 aveva acquistato dai Lorena per 300.000 Lire oro il Parco di Pratolino, anch'esso non in condizioni ottimali. Villa San Donato, con dentro una stratosferica collezione di opere d'arte di ogni genere ed epoca, e che neanche Superman avrebbe potuto mai cambiare ogni giorno, nel 1879 gli era venuta già forse a noia, dopo che l'aveva ereditata solo dieci anni prima dallo zio Anatoli. Voleva - scrivono ancora i contemporanei - mettere su una collezione sua personale. E quella, immensa, messa insieme da zio Anatoli e da nonno Nikolaj? Andò all'asta.

Fu un evento epocale. Il 15 marzo 1880 l'attenzione di tutto il mondo della cultura intercontinentale era puntata su Villa San Donato. Stavano col fiato sospeso l'Arciduca Carlo d'Asburgo, il conte di Chateaubriand, l'ambasciatore belga, diversi dei Rothschild, i direttori dei musei di Parigi, Berlino, Bruxelles, Anversa, un numero imprecisato di antiquari. L'incasso del primo giorno fu di 81.611 dollari, quello del secondo di 204.948, di 250.806 quello del terzo, per un totale di 537.365 dollari, una cifra fantasmagorica. Per due giorni le sale furono aperte al pubblico, e i fiorentini le invasero sapendo che non avrebbero più potuto rivedere tante meraviglie tutte insieme. Erano state stampate a Parigi, per i tipi di Pillet, tre versioni del catalogo generale delle opere messe all'asta, due delle quali in volume unico, ma diverse per carta e pregio generale. La più pregiata fu tirata in 300 copie e da tempo i collezionisti si contendono a colpi di mortaio quelle poche ancora esistenti. L'altra versione è oggi on line, e la potete esaminare qui.

La riproduzione del Geografo 
di Vermeer sul catalogo
Tra le vendite più cospicue, il ritratto di Anne Cavendish di Anthony Van Dyck andato ai Rotschild per 30.000 dollari dell'epoca; diversi Rembrandt aggiudicati a prezzi tra i 20 e i 29.000 dollari; Giubileo di Adrian Van Ostade, per 29.000 dollari. Evidentemente quest'ultimo era allora ben più quotato di Jan Vermeer, il cui Geografo andò per 4.400 dollari (circa 160.000 euro attuali) a un tale M. Bourgeois.
S'imbarcarono alla volta di New York le repliche della Porta del Paradiso di Ghiberti realizzate in scala ridotta (altezza 3,55 m, larghezza totale 2 m) da Ferdinand Barbedienne (1810-1892). Costituivano l'ingresso della Cappella di Villa San Donato (foto d'apertura). Avevano richiesto tre anni di lavoro, ed erano costati ai Demidoff l'equivalente di 20.000 dollari di allora.
Il 5 maggio iniziò l'asta dei libri della biblioteca che, secondo Cesare da Prato, erano almeno 40.000, quasi tutti di altissimo valore. La biblioteca si svuotò, ma si dovette aspettare oltre ottant'anni perché l'edificio tornasse ad assolvere al suo compito originario: quello di chiesa parrocchiale. Tale fu consacrata il 1° giugno 1963 dall'Arcivescovo Mons. Ermenegildo Florit.

L'interno della chiesa di S. Donato, ex biblioteca Demidoff.


sabato 16 settembre 2017

Una centrale termica futurista

Si trova curiosamente in Via delle Ghiacciaie la Centrale termica della Stazione ferroviaria fiorentina, progettata da Angiolo Mazzoni e inaugurata nel 1934. Oggi, come si vede dalle foto, necessiterebbe di un restauro.

Via delle Ghiacciaie, anche se non ci se ne rende conto per l'interruzione data dal complesso dei binari, è la prosecuzione di Via Guelfa, e si continua con Via Cassia e Via Maragliano. Fa parte dunque del primo Decumanus minor settentrionale dell'antica centuriazione romana. Deve il nome, naturalmente, alla presenza in antico di numerose ghiacciaie nella zona. Elementi fondamentali per la vita di un tempo ormai dimenticato, vi si conservava il ghiaccio nei mesi caldi. Si tratta di un concetto ben difficile da assimilare per le nostre generazioni, per le quali da una settantina d'anni il frigorifero costituisce, più che un elettrodomestico, una protesi di cui neanche ci accorgiamo, ma che se scomparisse d'improvviso ci porterebbe alla revolverata.
I miei amici Maurizio Bertelli e Donatella Masini, nel loro preziosissimo, e temo esaurito, Fuori della Porta al Prato - San Jacopino e le Cascine, sintetizzano in modo eccellente: "Le ghiacciaie erano formate da profonde buche rivestite di paglia e riempite, nel periodo invernale da neve fresca che veniva pressata fino al raggiungimento del livello di campagna; quando il colmo era giunto la neve, così collocata, veniva ricoperta da pula e paglia per garantirne una maggiore conservazione".

La figura di Angiolo Mazzoni (Bologna 1894 - Roma 1979) è stata negli scorsi decenni riconsiderata e rivalutata tra gli addetti ai lavori, ma non ha mai avuto presso il cosiddetto grande pubblico quella notorietà che meriterebbe.

Il suo ritratto eseguito nel 1934 da Ghitta Klein Carrel, a dire il vero, non ispira una gran simpatia. Mazzoni era stato fascista e si vede, lavorò per il regime, ma non si macchiò di delitti di sorta. Fu denunciato nel 1945 alla commissione d'epurazione, ma nel 1946 fu prosciolto.
Si diplomò in architettura all'istituto di Belle Arti di Bologna e si laureò in ingegneria civile nel 1919. Forse anche grazie a questo tipo di formazione, la frequentazione giovanile dello studio di un Marcello Piacentini, pur facendogli conoscere certe tendenze del monumentalismo, non lo portò mai ad allontanarsi dall'essenzialità. Ammirò i secessionisti viennesi, fu influenzato da Carrà e De Chirico, aderì al futurismo.

Fu straordinariamente prolifico. Dotato com'era non solo di una notevole cultura ma anche di un'altrettanto notevole apertura mentale, riusciva (quasi sempre) a tenere buoni certi muffiti burocrati di regime grazie a un eclettismo apparentemente ossequioso delle varie esigenze, dietro al quale però si celava comunque una sorta di comune denominatore stilistico, non di rado originalissimo. Lavorò prevalentemente nel settore Poste e Telecomunicazioni. Sua è la colonia marina per i figli di ferrovieri e postelegrafonici di Calambrone, intitolata a Rosa Maltoni Mussolini e inaugurata nel 1933. L'elenco di stazioni ferroviarie e di palazzi delle poste da lui progettati è decisamente lungo e spazia per l'intera penisola. Wikipedia ne elenca complessivamente ben trentuno. Spiccano il palazzo postale di Grosseto, la stazione di Siena (in buona parte distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale), la stazione di Montecatini Terme.
Collaborò dal 1936 al 1943 con l'architetto Virgilio Vallot per la stazione di Venezia S. Lucia. La realizzazione del suo progetto per la nuova stazione Termini di Roma s'interruppe bruscamente il 25 luglio 1943.

Angiolo Mazzoni realizzò ben cinque diversi progetti per la nuova stazione di Firenze, prima che  venisse bandito il celebre concorso (1933) vinto dal Gruppo Toscano capeggiato da Giovanni Michelucci, e al quale, sia detto tra parentesi, si deve la più bella Stazione ferroviaria d'Italia. La storia della vicenda, molto complessa,  è spiegata nei particolari da Milva Giacomelli nel catalogo della mostra itinerante Angiolo Mazzoni in Toscana (Edifir 2013).

Il rifornitore d'acqua e il fabbricato servizi accessori visti da Viale F.lli Rosselli

Nondimeno, come narrato sempre da Milva Giacomelli, Mazzoni progettò in pratica il resto del complesso legato alla ferrovia fiorentina. Sono suoi, tra l'altro, il fabbricato per i servizi accessori di Via Alamanni (il dopolavoro per intenderci), il complesso della Squadra Rialzo, ovvero il fabbricato di Viale Belfiore angolo Viale Redi attualmente in ristrutturazione, il rifornitore d'acqua accanto al sottopassaggio Principe Umberto, oggi Viale Fratelli Rosselli, e il sottopassaggio stesso.



Già, quel sottopassaggio che esce in Viale Strozzi e introduce nella circonvallazione, e nel quale prima o poi tutti noi fiorentini almeno una volta siamo rimasti ingorgati. Fu progettato da Mazzoni. Lo sapevate? Io no. Infine, la centrale termica, considerata il suo capolavoro.



Come si vede dalle foto, la prima presa in Via delle Ghiacciaie, la seconda dal binario 18 della Stazione, alla centrale è annessa la cosiddetta Cabina degli apparati centrali e, se in Via delle Ghiacchiaie la Centrale predomina la visuale dando come l'idea di una specie di transatlantico, con le sue ciminiere svettanti al centro, visto dal binario 18 il complesso suggerisce, come è stato osservato, l'idea di una locomotiva che traina un vagone.
Quando fu inaugurata, nel 1934, non poté non suscitare polemiche data la struttura che risulterebbe inusitata ancora oggi, figurarsi allora. Suscitò però - tra gli altri - l'entusiasmo incondizionato di Filippo Tommaso Marinetti.
Ancora Milva Giacomelli riporta le dichiarazioni del maggiore esponente del movimento futurista:

A colpire Marinetti era stato proprio il "versatile spirito" dell'architetto bolognese - quel manierismo moderno che raggiungeva i risultati migliori nelle costruzioni d'ingegneria dove meno invadenti erano le interferenze della committenza pubblica - "quando s'impose di genializzare gli alti camini di una 'centrale termica'. Egli lancia in cielo una scala spiralica di ferro che a una data altezza si muta in passerella orizzontale per raggiungere la prima bocca di fumo e da quella le altre. Si forma così una elegante passegiata metallica nel vuoto, che agilizza tutto l'edificio e richiama per la sua vaporosità atmosferica certe volubili ed elastiche musiche di Debussy. Praticità fusa con la bellezza, non viste mai in edifici del genere". La 'bellezza' era conferita anche dall'intonaco Terranova rosso "in tutte le facciate. Nelle pareti e nel soffitto della copertura sporgente a pensilina della parte aperta ove viene scaricato il carbone: intonaco Terranova nero. Infissi esterni, scala a chiocciola, ringhiere, passerella, camini in indaco scuro!"

Il rosso Terranova sarà ripreso nel 1973 da Marco Dezzi Bardeschi per il palazzo di Piazza S. Jacopino, anch'esso una costruzione quanto meno inusitata che ancor oggi fa discutere.







mercoledì 6 settembre 2017

GABBATO LO SANTO 9: Andrea Corsini


La splendida Cappella Corsini nel transetto sinistro di S. Maria del Carmine a Firenze soffre di due handicap: anzitutto si trova a confrontarsi con la, diciamo così, dirimpettaia Cappella Brancacci, e non può che uscirne sconfitta, anche se con onore. In secondo luogo, è un capolavoro del barocco e, bisogna riconoscerlo, questo stile a Firenze non ha mai realmente attecchito. Nella foto d'apertura si vede la centrale urna funeraria di S. Andrea Corsini, realizzata da Giovanni Battista Foggini (1652-1725) e sovrastata da un sontuoso bassorilievo opera dello stesso Autore, che mostra S. Andrea in gloria.

Sempre il Foggini ha creato, sull'altare di sinistra, l'Apparizione della Madonna a Sant'Andrea Corsini e, su quello di destra, Sant'Andrea Corsini guida i fiorentini nella battaglia di Anghiari, considerato il suo capolavoro.

Andrea Corsini fu tutt'altro che un condottiero. Al contrario fu un uomo di pace. In effetti, nel Diario sacro e Guida perpetua per visitare le Chiese della Città di Firenze (1700), Lodovico Antonio Giamboni narra che il 1° gennaio

in S. Maria del Carmine vi stà scoperta una miracolosa Immagine del Crocifisso, davanti la quale il glorioso S. Andrea Corsini Fiorentino fu veduto dopo morte pregare per sua Patria afflitta allora dall'Armi di Niccolò Piccinino, a favore della quale il dì 29 di Giugno 1440 n'ottenne un insigne Vittoria, e nel tempo del combattimento fu veduto il Santo in aria con la spada alla mano sbaragliare e mettere in fuga i nemici. 

Apparizioni sul campo di battaglia a parte, la biografia di S. Andrea Corsini è, come quelle di molti altri Santi, completamente annacquata da elementi leggendari inseriti dagli agiografi con scopi didattici, e difficili da verificare quando non del tutto inverosimili o documentati falsi. Base di tutte le Vite è un manoscritto del Padre carmelitano Piero Del Castagno, che risale alla metà del XV secolo.
La sua affidabilità è bassina. La vicenda umana di Andrea Corsini sembra includere tutti gli stereotipi delle vite dei Santi: dalla gioventù scapestrata alla conversione, alle guarigioni, alle estasi e alle apparizioni. In realtà non è certa neanche la data di nascita, anche se la tradizione indica il 30 novembre 1301, da Niccolò della nobile famiglia Corsini e Gemma della nobile famiglia Stracciabende. Da anni - altro stereotipo - attendevano un figlio e, avvenuto il concepimento, offrirono il nascituro a Nostro Signore. Il quale premiò la loro fede con un primogenito in effetti destinato alla santità, ma anche - riferisce il Brocchi - mandandogli in seguito altri otto figli maschi (forse, più semplicemente, Niccolò aveva capito il trucco).
Andrea ebbe, narra sempre la tradizione, una gioventù delinquenziale durante la quale ne combinò di tutti i colori, finché un giorno mamma Gemma gli disse in lacrime che, il giorno prima di partorirlo, aveva sognato di partorire un lupo che, introdottosi in una chiesa, ne usciva con le fattezze di un agnello. Folgorato dal racconto, egli si convertì immediatamente e, quindicenne, entrò nella chiesa del Carmine per diventare frate carmelitano. Luigi Passerini, nella Genealogia e storia della famiglia Corsini (1858), fece notare le contraddizioni di questa narrazione, non dissimile da quella della vita di S. Francesco:

Non fu fazioso in gioventù, come narrano i suoi biografi, perché un giovane a 15 anni non lo può essere; non dissoluto, perché ci attestano che morì vergine; non empio, perché dopo le prime rimostranze fattegli dalla madre per qualche giovanile trascorso, corse a rinchiudersi in un chiostro.


Guido Reni: S. Andrea Corsini
Pinacoteca Nazionale, Bologna
Neanche quest'ultimo particolare, ad ogni modo, è certo. Il primo documento in cui compare - figura tra i religiosi del Convento del Carmine - porta la data del 1338. Fanno sempre parte della leggenda agiografica due sue fughe: la prima in occasione della sua prima Messa, che non si sentì di celebrare tra i grandi festeggiamenti organizzati dalla sua facoltosa famiglia, e preferì, previo segrete autorizzazioni, scappare alla chiesa di S. Maria alle Selve, oltre Lastra a Signa, dove celebrò tra pochi intimi. La seconda quando fu nominato Vescovo di Fiesole da Papa Clemente VI, nell'ottobre 1349. Sentendosi indegno di simile carica, scomparve dalla circolazione. Stavano già cercando un sostituto da proporre al Papa, quando un bambino, illuminato da una rivelazione, lo fece rintracciare alla Certosa fiorentina.

Se non è vero che, come narrato, studiò all'Università di Parigi e, passando al ritorno per Avignone, ridiede la vista a un cieco, è vero però che nel 1348 era stato al capitolo generale dell'Ordine tenutosi a Metz, ed era stato istituito superiore della provincia toscana. Tale rimase fino al 1350. Svolse dunque questo compito negli anni terribili della peste, durante i quali non fece certo lo schifiltoso nell'assistere gli appestati.
Nominato Vescovo, anziché restare nel palazzo fiorentino dei Vescovi, come accadeva dal 1225, volle andare a stare nella sua diocesi, in mezzo al suo gregge. La condizione duplice di Vescovo e di frate non fu priva di conseguenze sul suo episcopato, che durò fino alla sua morte, avvenuta il 6 gennaio 1374. Andrea, e questo sì è documentato, si dimostrò forte con i forti. Fu in particolare nemico acerrimo di ogni corruzione e rilassamento di costumi, oltre che dell'ignoranza e delle negligenze all'interno del clero. Attento amministratore della diocesi all'insegna della massima austerità, fu letteralmente prodigo a favore dei bisognosi, e altrettanto vigilava sulla effettiva destinazione di quanto veniva a loro concesso. Una disposizione per i poveri è il primo atto documentato del suo episcopato. Altrettanto generoso volle essere nel finanziare i restauri della Cattedrale fiesolana, del Palazzo vescovile, e di altre chiese nella sua diocesi.

Francesco Curradi:  S. Andrea Corsini distribuisce il pane ai poveri
Chiesa dei SS. Quirico e Giulitta a Capalle (FI)
Piero Bargellini, infine, lo definì uomo di pace. Anche qui, certo, va separata la storia dalla leggenda. Leggenda è quasi sicuramente la sua missione a Bologna. Ecco come la riassume Carlo Celso Calzolai in Santi e Beati fiorentini (1965):

La città, sobillata dal Visconti, era divisa in fazioni e il potere pontificio era inetto a conciliare le parti. Andrea Corsini iniziò un'azione capillare. [...] Quando constatò la cattiva volontà dei Bolognesi usò la scomunica. I ribelli giunsero a incarcerarlo. Improvvisamente e prodigiosamente coloro che lo avevano affrontato furono colpiti da strani malori. I rivoltosi chinarono la testa e lo liberarono. 

Secondo gli studi agiografici di Padre Paolo Caioli, che nel 1929 smontò parecchie vicende attribuite ad Andrea - quelle qui esposte e molte altre -, si è confusa la missione con quella, documentata, di S. Pier Tommaso, anch'egli carmelitano, avvenuta nel 1364.
È invece documentata semmai la sua attività di uomo di pace in quanto eccellente diplomatico e arbitro incorruttibile e imparziale in controversie e dispute. A lui ricorrevano nobili e signori di tutta quella che oggi è l'area metropolitana Firenze Prato Pistoia.
Andrea Corsini morì il 6 gennaio 1374. Contro la sua volontà testamentaria fu sepolto a Fiesole. Ma subito i religiosi fiorentini trafugarono nottetempo la salma e la portarono a Firenze dove fu accolta con tutti gli onori. Ebbe un monumento in S. Maria del Carmine fatto costruire dalla famiglia nel 1386. La Cappella Corsini attuale fu inaugurata nel 1683.
Papa Eugenio IV lo beatificò nel 1440, ma la canonizzazione avvenne solo nel 1629 ad opera di Urbano VII.
Papa Clemente XII (1652-1740), nato Lorenzo Corsini, volle rendere omaggio al Santo della sua famiglia costruendo e a lui intitolando una cappella in S. Giovanni in Laterano a Roma, su disegno dell'architetto fiorentino Alessandro Galilei. Qui volle essere sepolto. Qui furono sepolti altri due cardinali della famiglia Corsini: Neri (1685-1770) e Andrea (1735-1795). Qui, infine, potrete effettuare una bellissima visita virtuale alla cappella.