mercoledì 25 ottobre 2017

La triste storia di un gigante del Liberty


L'architetto Giovanni Michelazzi si tolse la vita nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1920, davanti la Badia Fiesolana, perché, nella causa di separazione, la custodia dei figli era stata assegnata alla moglie. In seguito il destino, manovrato dall'imbecillità umana,  non sarà benevolo neanche con parecchie delle sue opere.
Michelazzi, che Giovanni Michelucci ricordò come «un gentiluomo con grandi baffi biondi: una persona che aveva viaggiato e letto molto», nasce a Roma nel 1879, ma si stabilisce ben presto a Firenze, in un'epoca in cui, sul piano architettonico, se "tutta l'Italia è troppo assorta nella contemplazione dei morti a danno dei vivi", nel capoluogo toscano la situazione è ancora più impaludata. Scrive nel 1899 il critico Alfredo Melani che "a Firenze è in uso un tipo d'architettura derivato dallo stile il cui rappresentante maggiore fu Filippo Brunesseschi; e la imitazione quasi pedantesca toglie ogni originalità alle costruzioni fiorentine. Ne fanno fede non solo i Villini ma le Palazzine della città (...): sovente graziose, costrutte in pietra serena azzurreggiante, sembrano uscite tutte da un medesimo stampo. E non par vero che gli architetti fiorentini non tentino qualcosa di nuovo, di inedito, di personale".

Una delle poche foto rimaste
del Villino Ventilari
Diplomatosi nel 1901, a soli 23 anni Giovanni ebbe il primo incarico: alcune aggiunte a un villino in viale del Poggio Imperiale. In pratica uno di quelli citati da Melani. Michelazzi fece un po' come Mozart che, nel film Amadeus (Milos Forman, 1984), appone un paio di aggiunte e modifiche alla sciatta marcetta di Salieri infondendole una vita completamente nuova e luminosa. Le aggiunte di Michelazzi - una veranda, una pensilina e un balcone, e un'esedra con fontana - già mostravano in nuce un artista non solo dal talento innato, ma che mostrava di avere già assorbito e aderito ad un incalzante movimento artistico. Un movimento, è vero, dalle tante sfaccettature e anche dai tanti nomi a seconda dei diversi paesi in cui si affermava: Art Nouveau, Jugendstil, Sezessionstil, Arte Jóven, e via elencando. In Italia si chiamò Arte floreale, o Liberty. Ciononostante, ebbe una sorta di unitarietà che ne fece il primo vero movimento artistico internazionale. Quanto più oggi - giustamente - viene studiato, celebrato, promosso, tanto più allora ebbe in Italia vita difficile - i motivi sono quelli sopra spiegati -, e giunse in forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Michelazzi fu, diciamo così, in anticipo sul ritardo.

Le sue prime opere furono un villino in viale Michelangelo (1904), il villino Ventilari in viale Mazzini (1905-1906), e il villino Ravazzini in via Scipione Ammirato (1906-1907). Il secondo fu forse dei tre il più originale, con una svettante torre cilindrica d'angolo.

L'arabesco musicale, o piuttosto, il principio dell'ornamento è la base di tutte le forme dell'arte.

Questa frase scritta, strano a dirsi, da Claude Debussy nel 1901, è forse quella che riesce a sintetizzare nel più breve spazio il concetto di Art Nouveau. Michelazzi fece tesoro di questa, e di altre dichiarazioni di principio. Le linee curve e sinuose, i colpi di frusta, l'uso del ferro e del vetro, i riferimenti alla natura che amava - sculture, immagini, bassorilievi fitomorfi e zoomorfi -, interpolazioni ceramiche quasi sempre opera di Galileo Chini, davano alle sue architetture un movimento e un dinamismo nuovo, suggestivo e probabilmente insopportabile per molta intellighenzia fiorentina. 

Il villino di Adolfo Lampredi e,sulla destra, quello di Giulio Lampredi

Dopo il villino Del Beccaro, dirimpettaio al villino Ventilari, vennero i primi capolavori: i due villini per i fratelli Lampredi, in via Giano della Bella. Riferendosi in particolare a quello di Giulio Lampredi (foto d'apertura), Luca Quattrocchi, nella sua bella monografia Giovanni Michelazzi 1879-1920 (Franco Cosimo Panini 1993) scrive che "sembra una costruzione sottomarina appena emersa dall'acqua, ancora grondante, colante, cui aderiscono molluschi indefiniti e bestie nate da oscuri incroci subacquei". 
Michelazzi si superò in due opere che dovrebbero essere presenti in qualunque testo antologico che riguardi non solo il Liberty italiano, ma tutta l'Art Nouveau. Cosa che non sempre avviene. 


Nel 1910 realizzò la Casa galleria, o Casa emporio, in Borgognissanti, forse - sono sempre parole di Quattrocchi - "l'esempio italiano più puro di Art Nouveau di tipo belga. Che però Michelazzi seppe rendere inconfondibilmente personale". Questo stretto e slanciato edificio evidenzia anche - e questo è un parere personale - lo straordinario retroterra culturale di cui Michelazzi era in possesso, e che gli consentì di costruire nel centro storico fiorentino tra palazzi per lo più medievali un'opera che, per quanto senza precedenti nella concezione, si integra perfettamente con le costruzioni adiacenti senza il minimo stridore estetico.


Asimmetrico, onirico, visionario, il villino Broggi Caraceni sorprende e incanta ancora oggi. Probabilmente Michelazzi ebbe carta bianca sul progetto e, libero da vincoli, creò nel 1911 in via Scipione Ammirato, accanto al Ravazzini, un edificio - cito ancora Quattrocchi -

strutturato come un organismo cellulare, fortemente dipendente dall'azione del nucleo interno (la scala elicoidale), con gli angoli tagliati ed un'andatura planimetrica sghemba che ricalca, accettandolo quasi come un vincolo stimolante, il perimetro irregolare del lotto.

La terrazza d'angolo del villino Broggi Caraceni.
In alto, la firma dell'architetto.
Leggiamo nel Repertorio delle architetture civili, a cura di Claudio Paolini: 

Si noti inoltre, a sottolineare l'assenza di un qualsiasi compromesso con l'esperienza ottocentesca, come gli elementi più propriamente Art Nouveau non si propongano quali semplici decorazioni sovrapposte alla scatola architettonica (come invece appare nel vicino villino Ravazzini sempre opera di Michelazzi), ma vadano a incidere profondamente sulla struttura stessa dell'intero villino, fino a definire una forma di notevole dinamismo.

La palazzina di via Repetti. 
Dopo, purtroppo, inizierà per Michelazzi un inarrestabile declino, dovuto in parte certamente ai vincoli posti dalle committenze. Michelazzi non sembra trovarsi a suo agio nella costruzione di palazzine multifamiliari, come quella, desolantemente anonima, di via Repetti (1912-1913). Che è opera sua si è potuto appurare solo dai documenti d'archivio. Più personale il villino Galeotti-Fiori di via XX Settembre. Il progetto di una villa Michelazzi in via Gamberaia, presso viale Michelangelo, non vedrà la luce.

Il villino Galeotti-Fiori
Giovanni Michelazzi partecipò alla Grande Guerra come tenente del Genio Militare. Al ritorno, dalle scarne notizie che se ne hanno, non sarà più lui. Era sempre stato un lavoratore instancabile, con un carattere imprevedibile che, in ultimo, si accentuò. Anche da qui dovette scaturire la causa di separazione. Ad ogni modo, riprese a lavorare e il villino Baroncelli in via Dupré fu un improvviso colpo d'ala, nel quale sembrò di ritrovare il Michelazzi più creativo e innovatore. Anche qui la collaborazione con Galileo Chini fu fruttuosa. L'anno seguente, il tragico epilogo.

Durante il fascismo, la campagna Date Ferro Alla Patria portò alla rimozione e conseguente distruzione di molte inferriate, cancelli, ornamenti in ferro che per Michelazzi erano componente fondamentale delle sue creazioni. Il villino Broggi Caraceni e il villino Ventilari in particolare furono vandalizzati. E se oggi il primo è stato restituito al suo splendore originale, il Ventilari ha poi subito una completa ristrutturazione dei locali interni.
Negli anni 60, in pieno miracolo economico, quando la Prima Repubblica non sentiva neanche il bisogno di avere un Ministero della Cultura, non si ebbe problemi, per far posto a redditizie palazzine, a radere al suolo il villino di Viale Michelangelo, il villino Ventilari e il villino Del Beccaro. Di quest'ultimo esiste una sola fotografia, poche degli altri.

La torre del villino Baroncelli
Quanto ci è rimasto è tuttavia sufficiente a comprendere e a rendere giustizia a uno dei più grandi architetti del primo '900, ciò che ancora non è avvenuto. Salvo errori, l'unica monografia su di lui è quella citata di Luca Quattrocchi, ripeto molto bella ma irrintracciabile nelle biblioteche. Tocca alla nostra epoca, per lo meno in questo superiore ai due secoli che l'hanno preceduta, colmare una lacuna che non ci fa punto onore. 



venerdì 20 ottobre 2017

In pellegrinaggio verso Pistoia


Quella che vedete è Via Maragliano a Firenze. È possibile che l'assetto odierno della periferia nord-ovest fiorentina sia dovuto almeno in gran parte a un Vescovo di Pistoia vissuto nella prima metà del XII secolo? È possibile eccome!

La storia, nella sua prima incerta parte, s'inizia all'incirca nel 1109, quando un viandante dai tratti palesemente forestieri bussa alla porta del Monastero di Vallombrosa. L'Abate, il Beato Bernardo degli Uberti, lo accoglie senza inizialmente riconoscerlo. Lui allora si presenta: si chiama Atto. Si erano incontrati al Concilio di Clemont-Ferrand (1095). Atto voleva partire lancia in resta per la prima Crociata, ivi indetta, ma Bernardo lo aveva esortato a far parte di una milizia non armata di usbergo, ma vestita delle umili divise di Cristo, per battersi contro il nemico che, non meno pericoloso dei mauri, minacciava la Chiesa dall'interno: la simonia. Quella combattuta da S. Giovanni Gualberto, fondatore dei Vallombrosani.
In seguito, Atto aveva preso commiato dalla sua città natale Badajoz per mettersi in cammino alla volta di Roma, traversando in modo non agevole i Pirenei e le Alpi. Aveva raggiunto la Città Eterna e, tornando per Norcia e Camaldoli, era approdato finalmente a Vallombrosa. Per Bernardo fu una gioia immensa dargli il benvenuto nell'abbazia.

Il Canonico Giovanni Breschi narra tutto ciò nei primi capitoli della sua Storia di S. Atto Vescovo di Pistoia, datata 1855. Correttamente non tralascia di precisare che su quanto raccontato molti dubbi sono legittimi. A partire dall'origine spagnola di Atto. Breschi la dà non come certa, ma comunque come molto probabile. Tra gli indizi più attendibili segnala un manoscritto coevo che riporta il citato incontro a Clermont-Ferrand; e la bolla emanata da Papa Paolo V nel 1614, in cui il Pontefice concede al popolo di Badajoz, che ne aveva fatto pressante richiesta, il culto del Beato Atto. Non sono riuscito a rintracciare studi di autori recenti segnalati da Benvenuto Matteucci, secondo i quali Atto sarebbe stato originario della Val di Pesa, o Pescia, o Passignano.
Ben più certa e documentata è la sua intensa attività presso l'abbazia vallombrosana, di cui divenne Abate nel 1120. "Durante il suo governo" riferisce ancora Matteucci "furono fondati il monastero di S. Donato in Borgo a Siena e una nuova comunità monastica, nella diocesi di Cremona, nel luogo detto Torre Trentina, presso una chiesa dedicata a s. Vigilio". Fu erudito ed eccellente letterato. Scrisse alcune biografie di Santi, tra cui Barnaba e Giovanni Gualberto. La sua autorevolezza gli procurò la nomina a Vescovo di Pistoia nel 1133, e una serie di privilegi da parte dei Papi Innocenzo II e poi Celestino II. Atto rimase comunque monaco vallombrosano, e onorò entrambi i mandati con coerenza, per giudizio di tutti, esemplare. Venne chiamato, quale arbitro corretto e imparziale, a risolvere numerose diatribe tra diocesi.

Benedetto Veli (1534-1639): incontro tra Papa Innocenzo II
e il Vescovo Atto. Badia a Passignano.

Tornando a quanto scritto in apertura, l'iniziativa presa da Atto che ebbe conseguenze di portata straordinaria, al punto di giungere in pratica fino a noi, fu la collocazione a Pistoia in Cattedrale della reliquia di S. Jacopo (o Giacomo). Ottenerla non fu facile. Atto si servì dell'intermediazione di un diacono di Compostela di origine pistoiese chiamato Ranieri, nonché di altri personaggi influenti, presso Didaco, Arcivescovo di Compostela, e inviò, sempre attraverso percorsi non del tutto agevoli, due pii pistoiesi: Mediovillano e Tebaldo. L'autorevolezza del Vescovo di cui erano latori fece superare a Didaco le esitazioni nei riguardi di un gesto senza precedenti. Acconsentì dunque, tra mille cautele, a staccare una ciocca di capelli dalla salma del Santo, ma coi capelli venne via anche una seppur piccola parte di cranio. Accettato l'imprevisto come volontà di Dio, il tutto fu inserito in un reliquiario, che Mediovillano e Tebaldo riportarono a Pistoia.
Furono accolti in città come trionfatori, con un dispiegamento di paramenti e una partecipazione popolare di cui difficilmente possiamo immaginare le dimensioni. La reliquia fu collocata nella Cattedrale di S. Zeno e furono consacrate ad hoc la cappella e l'altare di San Jacopo. San Jacopo fu proclamato Santo Patrono di Pistoia. Era il 1145. Da allora in poi fu un continuo contribuire all'abbellimento dell'altare con opere artistiche e ricchi addobbi, tanto che si parlò di tesoro di S. Jacopo. All'altare argenteo contribuì, tra il 1287 e il 1456, una vera all stars di orafi. La reliquia e l'altare rimasero nella cappella fino al 1785. Vedremo in un prossimo post cosa poi accadde.

Tralasciando le vessatae quaestiones sull'autenticità delle reliquie (di S. Stefano si veneravano tre braccia), ricordiamo il ruolo importantissimo che esse avevano non solo nella pratica religiosa, ma nella vita dei fedeli, cioè, all'epoca, di tutti. Scrive Breschi:


Se la venerazione per le sacre reliquie fu sempre grande nel popolo cristiano, come lo attestano i più certi monumenti della Chiesa primitiva, ella fu massima nel medio evo, quando il perfetto esplicamento dello spirito cattolico in virtù del generale predominio da esso conquistato sul paganesimo, e lo slancio d'una fede viva, accompagnata dalle sue nobili ispirazioni, rendevano sommamente care al cuore de' credenti tutte le rimembranze ed i resti preziosi di coloro che colla parabola, coll'opera e col sangue avevano contribuito allo stabilimento e alla diffusione della religione di Gesù Cristo.

La Chiesa di S. Jacopino quando
si trovava nella piazza omonima.

Le tre grandi mete dei pellegrinaggi cristiani erano nell'antichità la Terra Santa, Roma e Compostela.  Dopo il 1170, anno in cui fu martirizzato S. Thomas Becket, vi si aggiunse Canterbury. In Toscana, i fedeli che non avevano la possibilità, economica e/o fisica, di compiere percorsi così lunghi, si ritennero come miracolati dalla possibilità di raggiungere e adorare una reliquia di tal valore al termine di un cammino ben più breve. Pistoia divenne una meta di pellegrinaggio.
Negli stessi anni Firenze non aveva una grande importanza, e proprio perché era tagliata fuori dalle più grandi vie di comunicazione quali la Francigena. All'inizio del '200 la crescita della città andò di pari passo con lo svilupparsi di strade che, disposte a raggiera, convergevano sul centro. In questo modo si realizzò tra l'altro quella che Renato Stopani ha definito la 'cattura' della Francigena, grazie a un percorso per Roma "dalla via che collegava direttamente Bologna a Firenze attraverso i valichi appenninici del Mugello e proseguiva quindi in direzione di Siena utilizzando le strade che in precedenza erano servite a collegare la città gigliata con la Francigena, intercettata a Poggibonsi o a Siena".

La via di pellegrinaggio da Firenze a Pistoia sviluppò una importanza analoga. Era quella che, uscendo da Porta a Faenza, aveva in origine costituito il primo decumano minore settentrionale, ovvero le odierne via delle Ghiacciaie, via Cassia, via Maragliano, via di Novoli, e seguiva poi in pratica il percorso della Firenze-Mare.

S. Cristofano a Novoli

Come le nostre autostrade sono oggi fornite di punti di sosta con autogrill e motel, la strada per Pistoia si costellò di ospitali. Trattandosi di via di pellegrinaggio, i luoghi religiosi lungo il percorso crebbero e prosperarono, e molti sono giunti fino a noi. Non è casuale che la chiesa sorta all'incrocio del decumano con il secondo cardus minor occidentalis ed esistente almeno dal 1250 sia dedicata a S. Jacopo. Né che la chiesa sulla stessa direttrice a Novoli abbia come titolare S. Cristofano, protettore dei pellegrini. Il traffico intenso verso la reliquia di S. Giacomo, che per secoli ha interessato e caratterizzato la via, può essere tra le cause del fatto che questa è giunta fino alla nostra epoca in pratica senza aver subito variazioni né deviazioni di rilievo.









venerdì 6 ottobre 2017

La Manifattura Tabacchi, chi la costruì?


Colpisce e un po' addolora sapere che di via delle Cascine prima che sorgesse la Manifattura Tabacchi si sia persa in pratica qualunque memoria. Me lo conferma il mio amico Maurizio Bertelli, un'autorità in storia del quartiere fiorentino di S. Jacopino: tutto ciò che resta di quello che era un popoloso e animato borgo è una fotografia. Una sola fotografia. Per fortuna molto bella. Sullo sfondo si vede il tram numero 17. La linea tramviaria per le Cascine assunse questo numero a partire dal febbraio 1907. La foto dev'essere posteriore, ma forse non di tanto. A destra, questa infilata di palazzi, oltretutto piuttosto dignitosi, come dignitoso era l'abbigliamento e il contegno degli abitanti tutti ben allineati in posa per lo scatto, i piccoli in prima fila. Ma di lì a non molto le abitazioni sarebbero andate  incontro al loro destino.


Si era in pieno regime fascista. Gli stabilimenti nell'ex Convento di S. Orsola, in cui si producevano i sigari toscani, e nella chiesa sconsacrata di S. Pancrazio, ove si realizzavano manufatti più fini, non erano più in grado di seguire l'evoluzione tecnologica in corso. Si individuò in via delle Cascine e nella zona retrostante l'area in cui realizzare un unico, moderno impianto industriale.

Le demolizioni delle case iniziarono nel 1933. L'intervento riguardò un'area di ben sei ettari, e si risolse nella creazione di un vero e proprio villaggio polivalente. La foto aerea più in basso (l'ho trovata qui, non disponendo di un drone!) mostra una sorta di cittadella, compatta ma eterogenea dal punto di vista architettonico. L'edificio che comprendeva gli uffici e le sale maternità, prospiciente via delle Cascine, in travertino con bassorilievi di Francesco Coccia, e che si continua anche stilisticamente con l'ex dopolavoro, oggi Teatro Puccini, è noto a tutti i fiorentini. Il suo stile, monumentale senza essere magniloquente, lo rende gradevole ancora oggi.


Gli edifici retrostanti, destinati alla produzione e alla logistica, furono realizzati in stile e all'insegna del razionalismo. Scrive Cristina Cecchi: "L'edificio che più richiama lo stile razionalista è quello a pianta rettangolare posto lungo l'asse Nord-Sud, che conteneva al suo interno l'infermeria, la sartoria, gli spogliatoi separati per uomini e donne, la cucina, il refettorio e la mensa."
Il complesso fu inaugurato il 4 novembre 1940, quando l'Italia era già entrata in guerra.


In guerra, la Manifattura ebbe, suo malgrado, un ruolo da protagonista, almeno in due fasi.
Non si può infatti dimenticare il ruolo svolto dalle lavoratrici della Manifattura nella Resistenza e in particolare durante lo sciopero generale del 3 marzo 1944. L'episodio viene raccontato su www.toscananovecento.it, da cui copio un estratto. Ma prima ritengo opportuno ricordare che il citato maggiore Carità, delatore, torturatore di Villa Triste, fucilatore di partigiani e autore dell'orrendo eccidio di cinque ragazzi renitenti alla leva (Campo di Marte 22 marzo 1944), è stato uno degli esseri più rivoltanti e abominevoli che Firenze abbia conosciuto in tutta la sua storia.

Il caso della Manifattura Tabacchi è ancora adesso esempio di unità e di coraggio: all’epoca dello sciopero il 90% degli addetti era rappresentato da donne. Lo sciopero iniziò precisamente alle ore 13 quando due sigaraie, Marina e Valeria, staccarono l’interruttore principale delle macchine. In precedenza loro stesse avevano raccomandato gli uomini che lavoravano all’interno dell’azienda di non esporsi troppo perché sarebbero stati in maggiore pericolo in caso di una possibile reazione da parte delle autorità. Quando l’interruttore fu staccato, incitarono le compagne ad abbandonare il lavoro e a recarsi nel cortile interno dell’azienda da dove cominciarono a chiedere la fine della guerra e più cibo per i figli. In contemporanea un gruppo di donne si presentò al Direttore della Manifattura presentandogli le richieste delle scioperanti. Il Direttore promise che avrebbe riferito alle autorità competenti le richieste che gli erano state riportate, ma che le sigaraie nel frattempo avrebbero dovuto riprendere a lavorare; nonostante questo le donne dichiararono che avrebbero ripreso il loro lavoro solo quando tutte le richieste fossero state accolte. Poiché il 4 marzo ancora lo sciopero non si era concluso e le sigaraie continuavano imperterrite la loro protesta, la direzione decise di convocare Carità per porre fine alla manifestazione. Carità si presentò alla Manifattura Tabacchi alle ore 10 del 4 marzo accompagnato da un gruppo di militi armati di tutto punto, ma nonostante la sua presenza le sigaraie non abbandonarono la loro posizione e a lui non rimase che andarsene molto rapidamente. 

L'11 agosto iniziò come noto la battaglia di Firenze. I tedeschi si erano assestati su una linea che partiva da Piazzale del Re e, passando proprio per via delle Cascine, proseguiva oltre il viale Redi. Avevano occupato la Manifattura e ne avevano fatto una sorta di fortilizio, contrapposto al vicino e inespugnabile Casone dei Ferrovieri, edificio che occupa un intero isolato munito di un grande cortile interno e di due soli ingressi, presidiato dai partigiani e punto di riferimento per la popolazione dell'intero quartiere. Via Mercadante, che lo collega a via delle Cascine, fu teatro di scontri sanguinosi, fino al 18 agosto, quando gli invasori, incalzati dalle squadre partigiane, lasciarono frettolosamente il loro presidio.


Scrive ancora Cristina Cecchi: "Nel 1999 l'Ente Tabacchi Italiani (Ente pubblico nato nel 1998 per acquisire le attività produttive e commerciali dei Monopoli di Stato ad esclusione del Lotto e delle Lotterie e per privatizzare e dismettere parte del patrimonio) ne rilevò la proprietà e avviò la graduale dismissione della produttività che culminerà, dopo sessanta anni, con la definitiva chiusura della Manifattura fiorentina nel marzo del 2001."
Strano a dirsi, durante tutti questi anni non si è però mai riusciti a individuare chi ha realizzato il progetto. Nel titolo del post ho scimmiottato poco elegantemente la celebre poesia di Brecht i cui primi tre versi dicono: "Tebe dalle sette porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?" Il fatto è che, dentro i libri, di nomi proprio non ce ne sono. Sui testi si legge in genere che il complesso è opera di un non meglio identificato Ufficio tecnico del Monopolio di Stato. Chi ne facesse parte non è chiaro. Le attribuzioni che sono state formulate nel corso del tempo (Gamberini, Michelucci, Fagnoni) sono state smentite dagli interessati.
In tempi recenti è stato fatto con una certa insistenza il nome dell'ingegner Pier Luigi Nervi. Nel libro Nervi per l'industria: i Magazzini del Sale di Tortona, Federica Stella assegna senz'altro la Manifattura all'ingegnere autore dello Stadio fiorentino. In effetti Nervi era titolare dell'impresa costruttrice. La torre che sovrasta il Teatro Puccini è una versione ridotta ma non meno bella della torre di Maratona dello Stadio. Possibile, dunque, che Nervi abbia progettato la manifattura? Sì, e anche probabile. Ma non documentato. Salvo aggiornamenti, da nessuna parte è scritto esplicitamente. Con buona pace di Wikipedia, che formula la stessa attribuzione.
Così, mentre per una struttura ancora oggi molto amata dai fiorentini si prospetta un dignitoso futuro di rinascita (o almeno uno se l'augura) dopo anni di incertezze, l'incertezza su chi ne sia il progettista - o i progettisti - sembra destinata a non essere risolta.