lunedì 29 gennaio 2018

I poster dell'Angelico 1.


A quasi 600 anni dalla sua realizzazione, la Tebaide esposta agli Uffizi non ha ancora svelato tutti i suoi segreti e continua a far discutere gli storici sotto parecchi aspetti. Uno di questi è che probabilmente non sono quasi 600 anni, bensì meno di 300. Ma andiamo per ordine.

Una Tebaide è qualcosa di molto simile a un manifesto pubblicitario che reclamizza non tanto la regione tebana, quanto un ritorno alla vita eremitica e/o conventuale che ivi si svolgeva verso il IV secolo d.C., a diretto contatto con la natura (diremmo oggi), una natura sempre amica, e all'insegna della povertà e dell'essenzialità.  Il dipinto degli Uffizi è il più noto di questo genere, e il meglio conservato. La sua storia, anche attributiva, è però piuttosto complicata. Se ne ha la prima notizia nel 1777, quando era proprietà di Ignazio Hugford. 3 anni dopo, fu ereditato da tale Lamberto Gori che la rivendette alle Regie Gallerie fiorentine come opera di Gherardo Starnina. Variamente attribuito anche a Piero Lorenzetti, a Maso di Banco, a un ipotetico Maestro fiorentino del XV secolo, fu per la prima volta assegnato all'Angelico da Roberto Longhi nel 1940, nella sua storica monografia Fatti di Masolino e di Masaccio. Scrive Longhi:

E sebbene in questa tavola la necessità imposta di  esemplarsi sul grande cartellone eremitico di Pisa, a sua volta desunto da qualche schema bizantino, non permettesse all'artista di unificar prospetticamente tutto il racconto (che non esiste la sintesi di un calendario o di un elenco, a meno di sopprimerlo), ch'egli sapesse tuttavia di spazio assai più di quanto a prima vista non possa mostrarci è facile indurre solo che si isoli ogni episodio: per citarne il più complesso, quello del lamento sull'eremita morto [sotto].




Parte degli affreschi, o quel che ne rimane, del Camposanto di Pisa 

In realtà la Tebaide degli Uffizi non ha riferimenti agli affreschi del Camposanto di Pisa raffiguranti Storie degli anacoreti (1340?) cui allude Longhi, in pessimo stato non per colpa loro (bombardamenti tedeschi), e il cui autore è oggi riconosciuto unanimemente Buffalmacco. Anche perché non si hanno notizie di soggiorni pisani dell'Angelico. Si è ipotizzato casomai un debito nei confronti di un trittico realizzato da Grifo di Tancredi che mostra, nello scomparto centrale, la dormizione di un eremita. Grifo fu attivo a Firenze, per cui, nonostante oggi il trittico sia alla Scottish National Gallery di Edimburgo, l'Angelico può aver visto il trittico, o comunque un'opera ad esso riconducibile. Si tratta di una composizione bizantineggiante fatta risalire al 1285 circa. L'Angelico la vide - se la vide - quasi un secolo e mezzo dopo. Riplasmò il tutto da par suo!

Il trittico di Edimburgo

Sia nel trittico di Edimburgo sia nella Tebaide degli Uffizi vi sono minuziosamente rappresentati episodi solenni, sereni, curiosi, grotteschi, non di rado divertenti, comunque edificanti, sulla vita dei santi e/o eremiti nel deserto. Dalla belloccia che tenta S. Antonio al monaco sul carretto trainato da due leoni, all'altro anacoreta che riceve il cibo in un cestino fatto scendere dall'alto con un filo, al citato lamento sull'eremita morto (Efrem il Siro), non sono mai episodi campati per aria. Anche quando mostrano rapporti stranamente complici tra monaci e animali per noi esotici - orsi, tigri, leoni -, sono sempre e comunque tratti da fonti agiografiche ben precise. Non tutti sono stati ancora identificati. La consapevolezza di tale situazione ha portato tuttavia gli storici a spostare in avanti la datazione della Tebaide degli Uffizi. Avviene il contrario rispetto alla più parte dell'opera di Fra' Giovanni Angelico, che si è oggi portati a retrodatare rispetto a quanto postulato per secoli, il che ha consentito di considerare definitivamente il Frate di Fiesole non un artista a rimorchio del Rinascimento, ma al contrario del Rinascimento uno dei principali iniziatori oltreché protagonisti. 
Per la Tebaide, considerata per anni uno dei lavori giovanili dell'Angelico, quindi risalente a prima del 1520 quando ancora si chiamava Guido di Piero, si tende oggi a ipotizzare una data intorno al 1525. Alessandra Malquori, nel bellissimo Atlante delle Tebaidi e dei temi figurativi, scritto con Manuela De Giorgi e Laura Fenelli (Centro Di, 2013), la pone in funzione dell'opera di Ambrogio Traversari, teologo dell'ordine dei Camaldolesi, che l'Angelico frequentò assiduamente in Santa Maria degli Angeli. Scrive la Malquori:

[Traversari] attorno al 1423 concluse la prima stesura della traduzione latina delle Vite dei Padri, una raccolta di scritti greci che finalmente permettevano di attingere dalle fonti l'antica testimonianza della Chiesa delle origini, quella degli asceti nelle solitudini del deserto egiziano. Tra gli scritti che egli traduce vi è il Prato dei santi di Giovanni Mosco, che comprendeva molte storie che l'Angelico raffigurerà (...).

 
Nel 2002 un'altra Tebaide fino allora praticamente sconosciuta, proveniente da Budapest, dopo un restauro all'Opificio delle Pietre Dure, fu esposta alla mostra Masaccio e le origini del Rinascimento, che si tenne a San Giovanni Valdarno. E complicò notevolmente le cose. 
La tavola di Budapest, pur essendo solo il frammento della parte sinistra (se ne conosce anche l'estremità destra, oggi di ubicazione ignota), è una copia esata di quella degli Uffizi. Miklos Boskovits, nella scheda del catalogo, scrisse:  

la circostanza che le due composizioni sono praticamente identiche è piuttosto rara  in un'epoca in cui il concetto della copia esatta, "sovrapponibile", era ancora ignoto. 

A Vespignano con Antonio Natali, giugno 2015
Formulò poi l'ipotesi che i due dipinti fossero della stessa mano, e dunque quella dell'Angelico. In seguito, analisi più accurate dei dipinti rivelarono che i pigmenti usati erano diversi. La tavola degli Uffizi - peraltro anche troppo ben conservata - era in legno d'abete, quella di Budapest di pioppo, ben più diffuso in epoca rinascimentale. Nel 2009 Antonio Natali, direttore degli Uffizi, avanzò, non senza una certa audacia, una controipotesi: che la tavola originale dell'Angelico è quella di Budapest, mentre quella degli Uffizi non è che una replica, realizzata o commissionata nel '700 da Ignazio Hugford. 
A quanto ne so, Natali non fu massacrato dai colleghi come forse temeva. Al contrario, Alessandra Malquori fu d'accordo con lui anche per motivi stilistici, che non potevano essere evidenti prima del restauro del dipinto di Budapest. A un confronto con quello degli Uffizi, quest'ultimo le risulta "condotto con una pittura esemplare ma senza vita. La preparazione e la pellicola pittorica, per quanto ancora integre, sono piatte, prive di consistenza e spessore; la pittura è magra". In quello di Budapest

ogni personaggio è reso con corposità e carattere, non solo nelle figure ma anche nelle fisionomie, con delicatezza di incarnati, cura per l'espressione dei volti e attenzione nella resa delle vesti, di cui si arriva a precepire la differente compattezza (...) Anche la vegetazione è dipinta con estrema cura, nel piccolo orto coltivato dai monaci sul bordo del fiume, come negli alberi e cespugli che fanno di questo deserto un prezioso giardino

Inoltre, un calcolo delle dimensioni della tavola originale nella sua integrità ha permesso di stabilire che queste corrispondono in modo molto più preciso a quella tavoletta di legname di bra. 4 in circha, di mano di fra Giovanni, dipintovi più storie dei santi padri che figura nell'inventario del 1492 del Palazzo mediceo di Via Larga, e che Longhi per primo aveva riferito alla tavola degli Uffizi. Hugford era artista profondamente religioso e di grande cultura, ma anche scaltro commerciante. La Malquori ipotizza che abbia incaricato Lamberto Gori di realizzare la replica.
Non tutti però concordano con questa ricostruzione. Lo stesso Natali precisava che la sua non era una certezza assoluta. Studiosi autorevoli, come Carl Brandon Strehlke, attribuiscono tuttora la tavola degli Uffizi all'Angelico. Il dibattito è ancora aperto.
Unanime è invece l'attribuzione all'Angelico della Tebade brillantemente ricostruita nel 2005 da Michel Laclotte e da Anne Leader. Ma di questo ve ne parlerò a breve.

In margine, un aneddoto gustoso: guardate un po' (sotto) con quanta professionalità e competente attenzione l'agenzia di stampa ADN Kronos dette nel 2002 la notizia del ritrovamento della Tebaide di Budapest.







giovedì 18 gennaio 2018

GABBATO LO SANTO 11: Umiliana de' Cerchi


 

Una figlia di Oliviero di Cerchio de' Cerchi, sorella di Umiliana, fu la prima moglie di Corso Donati, e le due famiglie furono alleate a Campaldino (1289). Un'armonia che durò poco, se mai ci fu. Racconta Dino Compagni che i Cerchi, scesi a Firenze dal Piviere di Acone in Val di Sieve, erano uomini di basso stato, ma buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e teneano molti famigli e cavalli, e aveano bella apparenza, laddove i Donati erano più antichi di sangue, ma non sì ricchi: onde, veggendo i Cerchi salire in altezza (...), cominciorono avere i Donati grande odio contra loro. Alla fine del '200 se le davano quotidianamente di santa ragione, al punto che il sestiere dove entrambe le famiglie abitavano fu chiamato il sesto dello scandalo.  La divisione in guelfi bianchi e guelfi neri, con le due fazioni capeggiate proprio rispettivamente dai Cerchi e dai Donati, rese poi la rivalità proverbiale. Ma Umiliana aveva lasciato questo mondo già da tempo.

Umiliana era nata, sembra, verso la fine del 1219 dalla prima moglie di Ulivieri. A sedici anni fu data in sposa a un uomo nobile di famiglia - i Buonaguisi secondo alcune fonti -, ma non altrettanto nobile nei modi e nei costumi. Umiliana accettò, seppure non del tutto di buon grado, il matrimonio combinato ed ebbe (almeno) due figli(e).  Gli agiografi di Umiliana, forse nel tentativo maldestro di magnificarne la devozione, aggiungono un particolare quanto meno sconcertante. Sentite cosa scrive il pur scrupoloso e documentato Francesco Cionacci (1682).

La torre dei Cerchi nella via omonima,
sul Canto alla Quarconia
Amava tantissimo i figliuoli, non come l'altre madri d'amore terreno e d'affetto naturale ma di santa e celeste carità essendoché, quando s'infermavano non n'era molto ansi[os]a, né conturbata dal timore della loro morte, ma diceva: o come sarebbon beati, se così innocenti se n'andassero e portassero seco la loro verginità. Amo meglio la morte loro (s'è volontà di Dio) ch'e' rimangan nel mondo a offenderlo, e perdano l'eredità del Paradiso.

Giuseppe Maria Brocchi aggiunge sinistramente che alcuni dei suoi bimbi,  

prima che avessero compiti cinque anni, se ne volarono al cielo, avendo forse voluto il Signore in tal maniera esaudire le sue suppliche, che era solita di fare in tempo delle loro infermità.

Tutto questo è però in contraddizione - e meno male - con un miracolo di Umiliana riportato anch'esso un po' da tutti gli autori. Silvano Razzi nelle Vite de' Santi e Beati Toscani (1593) lo riferisce così:

Essendo un giorno entrata Regale piccola fanciulletta nella camera di questa Beata sua madre, sopragiunta da un subito caso, caddè in terra, quasi morta. Di che ansia la misera madre, e povera di consiglio, gittatasi a' piè d'una tavoletta, nella quale era effigiata la Vergine, davanti alla quale soleva adorare, pregò per la incolumità, e salvezza, di essa sua figliuola. Ne fu stata così molto, che vide di essa tavoletta uscir un fanciullo, il quale, fattole sopra il segno della croce, la quasi morta fanciullina ritornò in vita, e restituì alla pristina sanità. 

E il lettore si sente riavere, non tanto per il miracolo, quanto per la ritrovata umanità materna della Beata!

Il palazzo d'angolo tra via de' Cerchi
e via de' Cimatori dove, secondo
Padre Dal Giglio, visse Umiliana.
Ad ogni modo, gli agiografi parlano dell'instancabile attività di beneficenza in cui Umiliana iniziò a prodigarsi dopo il matrimonio. Il marito non gradiva affatto veder depauperare il cospicuo patrimonio di famiglia. Fu spesso violento. Umiliana trovò per fortuna nella di lui sorella Ravenna, che viveva nella stessa casa, una preziosa alleata. Crearono una vera e propria tabella di marcia, rigorosissima. Così ce la racconta Padre Mamiliano Dal Giglio (1940):

Alzarsi la mattina di buon'ora per esser pronte, al primo suono della campana, all'ufficiatra divina, assistere alla santa messa, comunicarsi spesso e poi tornare a casa per vigilare e, all'occorrenza, per aiutare la servitù nelle faccende domestiche. Nel pomeriggio, messa al più presto in assetto la casa, uscire di nuovo per opere di misericordia, raramente per visite a signore dello stesso rango, ché queste non piacevano.

Cinque anni dopo le nozze, il marito venne a mancare e Umiliana volle comunque munirlo dei conforti religiosi. Gli offrì la sua dote perché potesse rifondere le vittime della sua - pare - attività di usuraio, ma i beni di famiglia furono sufficienti a pagare i debiti, sicché la dote le fu restituita. 
La giovane vedova visse un anno nella casa del consorte, poi tornò nell'abitazione familiare. Dovette abbandonare la prole, allora usava così. Ma Ravenna se ne prese cura.

Il padre voleva rimaritarla, ma stavolta Umiliana fu de coccio. Voleva entrare nel convento di Monticelli, condotto all'epoca da Agnese sorella di S. Chiara, e dedicarsi alle opere di carità a tempo pieno. Olivieri non la prese bene. Con un raggiro le ritirò la dote. Umiliana a sua volta la prese malissimo. Rinnegò in pratica la famiglia, si proclamò non più figlia ma serva. Non poteva più praticare elemosine come avrebbe voluto mancandole i danari, sicché si ritirò nella torre di casa per dedicarsi alla preghiera, alla penitenza e alla meditazione. Usciva la mattina per le funzioni religiose e il sabato per la Messa e per comunicarsi, e se c'era la possibilità di qualche opera benefica. Più che incarcerarsi, Umiliana si assegnò i domiciliari.

Il civico 2 di via de' Cimatori e, più avanti, l'ex Supercinema

Vestì l'abito dei Terziari francescani. Non  ne fu la fondatrice come a volte è stato scritto, ma fu con ogni probabilità la prima terziaria ad avere gli onori dell'altare. Umiliana morì nel 1246, a ventisette anni, provata e sfibrata dai digiuni e dalle penitenze che si autoimponeva. L'agiografia narra poi, classicamente, di sepolture e traslazioni della salma per collocarla in siti in grado di accogliere meglio le preghiere e soprattutto gli ex voto dei fedeli, dato che Umiliana non fu avara di miracoli dopo la sua dipartita. Frate Ippolito da Firenze ne elencò quarantasette. Quanto ai miracoli compiuti da viva si racconta, oltre che della citata guarigione della bambina, della trasformazione in vino dell'acqua del pozzo nella torre. Lo si legge anche su una lapide, oggi - salvo aggiornamenti - nel chiostro di S. Croce, ma che in origine si trovava all'interno dell'attuale, o meglio ex attuale, Supercinema. Al posto del dismesso locale vi furono in precedenza (fine '700) i primi bagni pubblici, ma prima ancora erano le abitazioni dei Cerchi, fino al civico 2 di via dei Cimatori, e qui Umiliana si ritirò. Quest'ultima notizia la devo al bel libro Donne di pietra di Elena Giannarelli e Lorella Pellis, prima edizione Giorgi & Gambi 1999. Padre Dal Giglio sosteneva che Umiliana visse nel palazzo d'angolo tra via de' Cerchi e via de'Cimatori, ove una lapide sotto quelle indicanti le vie reca scritto LOGGIA DE' CERCHI. La prima ipotesi è tuttavia confermata da Claudio Paolini.

L'Arcivescovo fiorentino Ardingo propose Umiliana come esempio di vita devota e santa. In pratica la beatificò, in un'epoca in cui era il Vescovo che poteva dichiarare Beato un servo di Dio venerato dal popolo. Lo spiega Beatrice Pucci, in Le Romite del Ponte alle Grazie di cui ho parlato qui. L'approvazione solenne del culto avvenne solo nel 1694. 
Vito da Cortona, frate minore che aveva conosciuto di persona S. Francesco, si incaricò di redigere la biografia di Umiliana lo stesso anno della morte, come un instant book. Il testo è considerato abbastanza affidabile, comprendendo ben 34 testimonianze dirette.  Il manoscritto fu in seguito tradotto dal latino e compendiato da Raffaello da Volterra e successivamente da Domenico Moreni, dato che, come afferma quest'ultimo (1827) il testo originale era scritto rozzamente anzichenò. Cionacci cita scrittori che narrarono di Umiliana in almeno otto lingue, tra cui il fiammingo e il portoghese.
La devozione dei fiorentini nei confronti di Umiliana si protrasse anche nei secoli seguenti. Nonostante avesse rinnegato la famiglia, nel 1360 Giovanni di Riccardo de' Cerchi le dedicò la cappella di famiglia in S. Croce, che poi prese il nome di cappella Riccardi, dove fu collocato il reliquiario della Beata, attribuito (ma non da tutti) a Lorenzo Ghiberti.


Feo Belcari (1410-1484), poeta, drammaturgo e autore di numerose opere devozionali, nel 1453 fece erigere sempre in S. Croce un altare in onore della Beata Umiliana. Secondo Allison Levy, autrice di Widowhood and visual culture in early modern Europe (2004), Belcari commissionò un'immagine della Beata ad Andrea del Castagno.

Di immagini della Beata Umiliana de' Cerchi in realtà ne sono rimaste davvero poche. Di quella di Andrea del Castagno non ho trovato ulteriori notizie. Oltre al reliquiario, possiamo vedere nella chiesa fiorentina di S. Trinita l'Incoronazione di Bicci di Lorenzo (foto d'apertura), in cui Umiliana compare all'estrema destra, in abito da terziaria francescana, in secondo piano rispetto alla - rimpiccolita - seconda moglie del committente (il commerciante Paolo Bernardo di Piero Bernardi), che si chiamava Umiliana di Manno di Lapaccio de' Cerchi e ne era parente alla lontana. Quando nel 1446 le morì il marito, si ritirò nel convento di S. Orsola come terziaria francescana.

Su Wikipedia si legge che Umiliana fu rappresentata da Taddeo Gaddi nell'affresco raffigurante L'albero della vita, nel refettorio di S. Croce. L'ipotesi, è stato osservato, non regge. La donna ai piedi della Croce è priva di nimbo (aureola), ed è più piccola degli altri personaggi, sicché si tratta certamente della committente.

Particolare dell'Albero della vita di Taddeo Gaddi

 Per quanto riguarda il ritratto di Umiliana presunta opera di Giotto cui fa cenno sempre Wikipedia, ne dà notizia Filippo Baldinucci nel primo volume delle sue Notizie de' Professori del Disegno da Cimabue in qua publicato nel 1681 e ripreso l'anno dopo dal già citato Francesco Cionacci nella documentata Storia della Beata Umiliana Vedova Fiorentina del Terz'Ordine di San Francesco. Scrive Baldinucci:

In casa i Cerchi posta al piè del ponte vecchio nell'antica torre de' Rossi [oggi ristorante] si conserva di man di Giotto in un loro oratorio il ritratto della B. Umiliana della stessa nobilissima famiglia de' Cerchi (...) Questo ritratto da chi oa tali cose scrive fu agli anni passati più volte ricopiato in piccola proporzione tenendosi ne' panni (quanto le più possibile senza scostarsi dall'originale) alla più morbida maniera moderna. 

A sua volta, Alberto Clovet ne ricavò un bassorilievo in rame. Sempre secondo Baldinucci, anche Fabrizio Boschi fece diverse copie dell'immagine giottesca. Ammesso naturalmente che fosse tale. Sul destino del dipinto non ho trovato notizie. Mentre ho rintracciato una delle copie, che porta in basso le firme sia di Baldinucci sia di Clovet. Ugualmente ripreso dal profilo è il bassorilievo associato alla lapide del Supercinema di cui ho parlato.
Ricordiamo infine la cappella privata, intitolata alla Beata Umiliana, del castello d'Acone, luogo d'origine, come abbiamo visto, dei Cerchi. Qui è un dipinto raffigurante l'apparizione della Madonna a Umiliana, attribuito al Guercino.

P.S. Motivi familiari mi impediscono, attualmente, di postare con la frequenza cui ero (e vi avevo) abituato. Me ne scuso con tutti. Spero di poter riprendere ben presto i ritmi usuali. Ho tante cose ancor da raccontare (cit.), e confido nella vostra comprensione. 


martedì 2 gennaio 2018

Il bravo prete


Don Lorenzo Milani aveva detto: "Mi capiranno fra cinquant'anni".
La visita di Papa Francesco a Barbiana, avvenuta il 20 giugno appunto per i cinquant'anni dalla morte, ne ha avverato la profezia e ha costituito il momento cruciale di una consacrazione definitiva della figura di Don Lorenzo come cristiano e come sacerdote, e non poteva non riaprire dibattiti su questo bravo prete. Non ho intenzione di intervenire in merito. Non ne ho l'autorità e il mio parere non aggiungerebbe nulla di memorabile a quanto è stato finora scritto e/o detto.
Se scrivo questo post è per segnalare e condividere due testi che ho avuto occasione di esaminare solo di recente e in contemporanea, e che - integrando tra gli altri due libri fondamentali quali la celebre biografia di Neera Fallaci dal titolo Dalla parte dell'ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Rizzoli 1974 e Lassù a Barbiana ieri e oggi, Polistampa 2004, di Bruno Becchi - mi hanno aiutato a comprendere qualcosa - molto - di più sul Priore di Barbiana.


Il mio amico Fabrizio Borghini pubblicò nel 2005, per i tipi di Jaca Book, Lorenzo Milani: gli anni del privilegio. Un libro dal titolo più che esplicito, che getta (nuova) luce sulla prima parte dell'esistenza di Don Lorenzo. Un libro sotto alle cento pagine ma, come si legge nella prefazione di Cosimo Ceccuti, "frutto di anni di meticolose ricerche, confronti, verifiche, riflessione attenta su testimonianze originali e indizi".

Fabrizio Borghini
Testimonianze originali che ci parlano di un ragazzo della Firenze bene degli anni 20, in una famiglia che - quando avere un'automobile era un lusso per pochi - di automobili ne aveva due.
Lorenzo frequentava il fior fiore della cultura e della nobiltà toscana, tra Firenze e Castiglioncello (interessantissima la storia dello sviluppo di questa località, inserita perfettamente nella narrazione senza apparire un di più). Intellettuali e nobili per lo più antifascisti, "ma tutti accettavano i riconoscimenti che il fascio sapeva dare a chi se li meritava", e antifascisti più che altro perché consideravano i fascisti "un branco di cafoni con quelle orrende divise".
Ma Lorenzo comprese, seppure non dall'oggi al domani, che "la fortuna economica della sua famiglia è lievitata sulle spalle dei contadini e dei pastori dei ventiquattro poderi della tenuta di Gigliola [di proprietà Milani]". Per questo, e mi pare la frase fondamentale, la sua rigorosa, irremovibile, cocciuta volontà di promuovere il riscatto dei poveri a partire dal piano culturale, che si concretizzò nelle sue scuole, (anda)va  intesa "non come dono da fare ai poveri ma come debito da pagare". Naturalmente ho solo sintetizzato una serie di concetti complessi, che Borghini nel libro ha saputo esprimere con chiarezza invidiabile.

Io insieme con Giampiero Pagnini
Non ho la fortuna di conoscere Andrea Cecconi e Gian Franco Riccioni, i curatori di Lorenzo Milani - immagini di una vita - dall'album della sorella Elena. Ho però la fortuna di annoverare tra i miei amici l'editore Gianfranco Pagnini, che mi ha cortesemente fornito questo libro, edito nel 2013 e fatto quasi soltanto di fotografie. Fotografie private, lo si capisce anche qui dal titolo, senza dubbio non destinate ad alcun tipo di pubblicazione.

Dedicata alla memoria di Elena, scomparsa nel 2010, e realizzata con la collaborazione del marito Erseo Polacco, "Questa pubblicazione" si legge nella premessa "vorrebbe proporsi come invito ad una riflessione silenziosa su Milani e sulle sue scelte di vita: nel senso di lasciare alle sole immagini la facoltà di 'parlare, la capacità cioè di suscitare nel lettore emozioni e suggestioni attraverso il non-detto, appunto". Il volume è diviso in due parti sostanzialmente di pari importanza e consistenza. I titoli sono: I miei primi vent'anni e La seconda nascita.
Se si esaminano le foto, ci si rende conto di una differenza quasi concettuale tra le due parti stesse: nella prima le foto sono quasi tutte in posa, nella seconda sono quasi tutte istantanee. Nulla di grave per le foto in posa. Si era in un'epoca priva di Smart, quando scattare una foto familiare, pur non essendo più qualcosa di eccezionale e unico, era pur sempre un avvenimento ed era del tutto naturale per l'occasione pettinarsi, riaggiustarsi il vestito (possibilmente della festa), se si era in gruppo sistemarsi in posizione opportuna con i più piccoli o bassi in primo piano, e infine sfoderare il miglior sorriso possibile. In fin dei conti, seppure con meno accorgimenti, accade ancora oggi coi selfie di gruppo.
Messe in relazione con le prime, le foto del sacerdozio ci appaiono rivelatrici di una condizione di serenità personale, per non dire interiore, che prima in Lorenzo non c'era. Nonostante le privazioni che aveva accettato in piena scienza e coscienza, e le amarezze causategli dalle difficoltà e dalle incomprensioni. O almeno questa è la sensazione che ne ho ricavato, forse influenzato dalla frase di Don Lorenzo riportata a pagina 128:

Io poi non ero mai stato bene come ora e se dicessi che ho coronato tutti imiei sogni d'infanzia direi una bugia perché io non ho avuto mai fantasia sufficiente per sognare tanti quanti poi [la Provvidenza] me ne ha dati.

Don Milani non amava, non voleva parlare dei suoi primi vent'anni "passati nelle tenebre dell'errore". Si può comprendere una sorta di pudore da parte sua. Col senno di poi ho la presunzione di sostenere che sbagliava. Perché questi due libri ci permettono di comprendere che fu proprio in larga parte la sua preesistente condizione di privilegiato a fornirgli le basi per intraprendere il percorso che lo condusse alle scelte religiose, culturali e sociali che ne hanno caratterizzato la - straordinaria - figura.