martedì 20 marzo 2018

Ugo Giusti, o la discrezione del Liberty


Di Galileo Chini il web esonda. Del suo migliore amico e collaboratore, l'architetto Ugo Giusti, si può dire che sul web non c'è traccia. Non ha una voce su Wikipedia. Non è sulla Treccani (c'è un suo omonimo). Viene citato di sfuggita quando si parla delle Terme Berzieri a Salsomaggiore. L'unico, dunque prezioso, testo monografico a lui dedicato è il volume di Maria Maugeri "Ugo Giusti - un architetto fiorentino nella Toscana del primo Novecento", edito da Polistampa nel 2013.
Che Giusti abbia subito un'ingiustizia dal tempo è indubbio, ma bisogna anche ammettere  che in un certo senso c'era da aspettarselo. Il ritratto di questo personaggio che faticosamente si riesce a mettere a fuoco, aiutati da una sola fotografia, è quello di un individuo schivo e riservato, in perfetta antitesi col suo straripante amico pittore e decoratore. Viene da pensare che tutto sommato avrebbe preferito così, che non ci fosse tanto baccano sulla sua persona, solo magari un po' di rispetto per la sua opera, cosa che non sempre avvenne. A novant'anni dalla scomparsa, l'opera di questo artista, certamente non geniale come un Giovanni Michelazzi o come lo stesso Galileo Chini, ma prolifico e dotato comunque di un talento e di una sensibilità straordinari, meriterebbe di essere esaminata con uno sguardo meno distratto - forse presuntuosamente distratto - di quello finora usato nei suoi confronti.


Ugo Giusti nacque nel 1880 a Firenze, da una famiglia modesta che abitava nell'odierna via Gioberti. Viene descritto come un uomo dal fisico piuttosto gracile. La sua testa però tanto gracile non lo era, e lo si capì presto.  A diciassette anni meritò una borsa di studio dalla Scuola Professionale di Arti Decorative e Industriali di Santa Croce. In seguito poté iscriversi all'Accademia di Belle arti fiorentina. Diplomatosi in disegno architettonico, avrà una cattedra della stessa materia, nella stessa Accademia, a partire dal 1905 e, nonostante l'intenso lavoro, la manterrà fino alla morte.
Nel 1907 aderì alla Giovane Etruria che, fondata da Plinio Nomellini, intendeva - narra Maugeri - realizzare un ideale raccordo fra le tradizioni più nobili e un recuperato spirito di regionalismo. Era in buona compagnia. Facevano parte del gruppo un po' tutti i nomi di spicco della Firenze artistica di inizio '900. Pittori, scultori del calibro di un Libero Andreotti, oltre ai colleghi Michelazzi, Andrè, Fantappiè, Coppedè (oh: se si chiamavano così!). E naturalmente Galileo Chini. L'amicizia tra i due si era già creata da tempo e non si sarebbe mai interrotta. Chini, come noto, aveva fondato la sua officina L'Arte della Ceramica nel 1897 in via Arnolfo. Fu lui che probabilmente presentò l'amico all'architetto di Pescia Giulio Bernardini. Questi e Giusti, la cui fama si espandeva a macchia d'olio, iniziarono una collaborazione che avrebbe dato i suoi frutti in particolare a Montecatini Terme. Dopo aver eseguito dei lavori di ampliamento delle Terme Tamerici nel 1909, nel 1914 vinsero il concorso per la ristrutturazione delle Terme Tettuccio, Regina e Savi. Per una serie di problemi non del tutto limpidi, però, il progetto non vide la luce. Vide la luce, sempre a Montecatini, il Casinò Municipale Excelsior, inaugurato nel 1907, ma che già nel 1915 era stato ristrutturato e riconvertito in stabilimento termale. In tutti questi progetti non mancavano mai i contributi decorativi di Galileo Chini, che divennero i protagonisti nell'indiscusso capolavoro di Ugo Giusti: le terme Berzieri di Salsomaggiore.


Anche in questo caso i lavori erano partiti nel 1914 su progetto di  Giusti e Bernardini, ma procedettero con grande lentezza anche per cause belliche, e nel 1918 Bernardini si ritirò. Le terme furono inaugurate nel 1923. In questo sito troverete i particolari storici e molte belle fotografie del fabbricato. Dallo stesso sito riprendo un paragrafo che dà un'idea del lavoro colossale svolto da Ugo Giusti ...e non solo da lui.

“Le cronache del tempo riferiscono che per la grande "fabbrica termale" furono impegnati 140 addetti alle opere murarie, 125 marmisti, 60 fra stuccatori e decoratori e 70 tra ebanisti, elettricisti e capi tecnici. Senza contare gli artigiani che forgiarono nell’officina di Antonio Veronesi i ferri dei velari, delle cancellate, delle finestre, le porte e le maestranze delle Fornaci Chini. I marmi provenivano dalle cave di Verona, Rezzato, Carrara e Siena; da Rapolano invece il travertino per il rivestimento della facciata e per le robuste colonne scanalate della pensilina.”

Giusti poté contare su un budget più che generoso (23 milioni di lire) anche se s'immagina non con gran piacere della committenza. Lavorò d'intesa con l'amico Galileo Chini che vi prodigò il suo talento, all'epoca ancora influenzato dal soggiorno siamese terminato da poco. Fu anche così d'aiuto alle Fornaci di Borgo S. Lorenzo, della stessa famiglia Chini, commissionando una notevole quantità di lavoro, materiale e manufatti, tanto da imporne l'ampliamento. D'altronde, la stessa fabbrica e la showroom delle Fornaci borghigiane erano opera di Ugo Giusti. Furono distrutte dai bombardamenti del 30 dicembre 1943. La cartolina sotto è una delle poche immagini rimaste.


L'amicizia fra i due fu stretta e inossidabile. Probabilmente proprio a causa della complementarietà dei caratteri. Timido, riservato, quasi sempre nell'ombra l'uno - che nondimeno sapeva imporsi alla bisogna -; estroverso, narcisista, non di rado un po' guascone l'altro. Galileo, tuttavia, non intese mai approfittarsene. Al contrario. La sua stima per Ugo la riaffermò più volte, anche e soprattutto con i fatti. Oltre alle Fornaci di Borgo, Galileo lo incaricò di costruirgli la casa (1909) e lo studio (1914) di via del Ghirlandaio. Quando, per un equivoco, la Villa Chini di Lido di Camaiore venne attribuita a lui stesso, Galileo per primo non esitò a smentire e a rendere giustizia al vero autore, appunto Ugo Giusti. Ed è solo un esempio.

Villa Chini, Lido di Camaiore, 1914

Lo si vede dalle immagini. Giusti non si può definire un architetto Liberty in senso stretto. Non indulge molto in arabeschi. Sembra rifarsi più al Secessionismo viennese. Ma le incursioni decorative dell'amico conducono verso un connubio eclettico originale e straordinario. E, aggiungerei, irripetibile. Un connubio che meriterebbe una maggiore conoscenza e approfondimento, come prototipo (cito Maria Maugeri) della "comune consapevolezza dell necessità di integrare architettura e arti applicate per qualificare l'ambiente, operazione possibile solo tramite l'abolizione della radicata distinzione fra arti maggiori e arti minori sula scorta di quanto era avvenuto già a Vienna con Otto Wagner che, nella ricerca di nuovo, diede vita ad un'architettura cromatica segnata da ornamenti floreali e figurativi funzionali alla definizione delle volumetrie"

Lo studio di Galileo Chini in via del Ghirlandaio.
Il dipinto nel riquadro sovrastante l'ingresso,
dello stesso Chini, è praticamente scomparso.
L'opera di Ugo Giusti è vastissima. L'elenco delle sue opere, la maggior parte delle quali purtroppo scomparse, è davvero interminabile, e spazia in numerosi campi. Oltre all'architettura termale, lavorò molto in quella ricettiva: intervenne nella costruzione o nella ristrutturazione della Locanda Maggiore di Montecatini, dell'Hotel Brunelleschi, dell'Albergo Roma, del Grand Hotel di Firenze, del Grand Hotel Des Thermes di Salsomaggiore. E nell'architettura cimiteriale (ci vuole anche quella). Giusti fu nominato nel 1923 direttore dei lavori per l'ampliamento del Cimitero monumentale dell'Antella, e anche in questo caso l'intesa con Galileo e più in generale con la famiglia Chini condusse a risultati memorabili. Sono riportati con dovizia di immagini nel bel volume di Silvano Guerrini: I Chini all' Antella : opere di Dario, Galileo, Leto, Tito Chini e Manifattura Fornaci San Lorenzo nel Cimitero Monumentale della Confraternità di Misericordia (Ven. Confraternita di Misericordia di S. Maria, 2001), anche se, come sempre, si accenna solo di sfuggita alla figura di Ugo Giusti. Il quale contribuì con diversi interventi, soprattutto con la realizzazione di cappelle di famiglia, anche al Cimitero di Fiesole, al Cimitero della Misericordia di Borgo S. Lorenzo e a quello fiorentino delle Porte Sante.
Per quanto riguarda l'architettura sacra ricordiamo la chiesa di S. Antonio a Montecatini Terme, realizzata anch'essa in collaborazione con Giulio Bernardini (1926), e la ristrutturazione della chiesa di S. Michele a Figliano, presso Borgo S. Lorenzo, dopo i danni subiti dal terremoto del 1919. Sempre a Borgo San Lorenzo spicca, infine, la sede dell'Arciconfraternita di Misericordia, opera che fu terminata e inaugurata poco dopo che, per un male incurabile, Giusti si era spento all'età di soli 48 anni. Era il 1928.

Borgo San Lorenzo, sede dell'Arciconfraternita di Misericordia

La malattia impedì a Giusti di portare a termine uno dei suoi incarichi più prestigiosi: la passeggiata a mare di Viareggio (foto d'apertura). Nel 1917 un furioso incendio devastò tutti gli edifici - per lo più in legno e ferro - che affollavano senza particolare criterio il viale a mare dal molo al Caffè Concerto Eden. Nel 1924 si costituì (finalmente) una commissione governativa per riprogettare in modo organico la passeggiata. Ne facevano parte Alfonso di Vestea (batteriologo dell'Università di Pisa), Giacomo Puccini (non ha bisogno di presentazioni), Galileo Chini e Ugo Giusti. Quest'ultimo stese un disegno preparatorio, ma i lavori procedettero per motivi burocratici terribilmente a rilento. Giusti protestò, intervenne anche il prefetto, i lavori ripresero, ma le condizioni dell'architetto si erano nel frattempo aggravate e non fu più in grado di riprendere in mano il progetto che, dopo la sua morte, passò ad Alfredo Belluomini. Questi, pur di diverso temperamento, apprezzò il lavoro svolto dal predecessore e collaborò proficuamente con Galileo Chini.

Caffè Margherita, Viareggio
Difficile dire se si possa ancora ravvisare il pennino di Ugo Giusti nei primi edifici della passeggiata, soggetti in seguito a parecchi rifacimenti. Mi permetto di avanzare delle riserve sull'ipotesi di Maugeri, peraltro con punto interrogativo, di attribuire la paternità di Giusti alle cupolette del Caffè Margherita.
Nell'ultimo periodo, Giusti aveva espresso più volte il desiderio di trasferirsi a Milano. Anch'egli, evidentemente, si era stancato di quel provincialismo imperante che a Firenze aveva messo più volte i bastoni tra le ruote a qualunque innovazione che si ponesse al di fuori di una grigia e stantia celebrazione dei fasti del passato fiorentino.
I funerali di Ugo Giusti furono grandiosi e solenni. Il Messaggero del Mugello stilò un elenco lunghissimo di partecipanti, tra cui in pratica l'intera famiglia Chini, oltre ai nomi più importanti dell'architettura toscana, compreso Giulio Bernardini, e naturalmente le autorità fiorentine e non solo. Il corteo funebre attraversò via Cavour e via Martelli a Firenze, la funzione religiosa avvenne in S. Lorenzo, e la salma fu tumulata al Cimitero della Misericordia dell'Antella.

venerdì 16 marzo 2018

Il mistero del sindaco scomparso


Questa storia parla di un individuo ignobile. Un fascista arrogante e violento che negli anni 20 del XX secolo fu sindaco di Vicchio, e pareva destinato a  un luminoso avvenire, ma d'improvviso venne inspiegabilmente messo da parte, e le sue tracce a un certo punto scompaiono. Svolsi su di lui nel 2010 una ricerca, che però per motivi di spazio rimase fuori dal mio contributo a un volume storico realizzato a più mani, dal titolo Montegiovi: se son rose fioriranno. Mugello e Val di Sieve dal fascismo alla Liberazione (Polistampa 2012).

Si chiamava Marino Marchetti. Nacque il 31 gennaio 1896 a Vicchio. Il padre Carlo, fattore, viveva in un quartiere della canonica della frazione di Caselle e aveva in affitto i poderi della Pieve. Marino seguì le orme del padre e divenne agente di beni. Abitò in località Pilarciano. Nel 1922, anno in cui partecipò alla Marcia su Roma, era Segretario politico del Fascio di Vicchio e Segretario della Cooperativa Agricola vicchiese. A questo titolo, in merito a una polemica seguita a una ‘tumultuosa assemblea’ della Cooperativa stessa, il 16 aprile dello stesso anno il Messaggero del Mugello, settimanale di Borgo S. Lorenzo, pubblicò una sua lettera, che la diceva lunga sulla sua indole:

In risposta all’articolo di Pietro, o Beppe che sia, comparso sul Messaggero del Mugello in data 9 c.m., tengo a dichiarare che son sempre pronto a dar prova della mia più, o meno, robusta muscolazione quando si tratta di difendere l’onorabilità di persone per bene quali crede essere il sottoscritto tutti i componenti il Consiglio della Cooperativa Agricola di Vicchio.

Piazza dei Giardini, Vicchio, 1923
L’attività di picchiatore fascista fu da lui vantata più volte. Il  21 gennaio 1923 venne pubblicata sul Messaggero del Mugello una lettera del maestro cattolico di Borgo San Lorenzo Antonio Cassigoli, che chiamava in causa Marchetti quale capitanante il gruppo di fascisti che lo aveva costretto all’ingestione di un bicchiere di olio di ricino. Solo molti anni dopo,  Cassigoli raccontò al mio amico Aldo Giovannini che il farmacista finse di compiacere i clienti picchiatori ma, approfittando del vetro scuro della bottiglietta, la riempì d'alchermes.  S'intende che ciò non attenua certo le responsabilità degli squadristi. Sul numero seguente del Messaggero, Marchetti rispose:

Il maestro Cassigoli fu, dai fascisti di Vicchio, purgato perché aveva pronunciato a Campestri un discorso contro il fascismo, e perché aveva proibito ad alcuni soci del Circolo “Semper Virens” di indossare la Camicia Nera. (…) In quanto poi a me, egregio maestrino, c’entro proprio per volere della sorte, perché quella sera mi trovavo a Borgo, non per capeggiare i fascisti miei paesani, che con ragione vi purgarono, come voi, da diligente pipista, malignamente affermate, ma bensì per il disbrigo dei miei affari. E di quello ne può far fede la mia visita all’Ufficio del Genio Civile e la mia operazione bancaria con l’Agenzia del Monte dei Paschi di Siena di cotesto paese. Questo per la verità.

Marino Marchetti fu proclamato Sindaco di Vicchio il 23 marzo 1923, dopo le elezioni amministrative tenutesi il 4 marzo. Il 2 dicembre, “in segno di riconoscimento per i suoi altissimi meriti di fascista”, ricevette una medaglia d’oro che gli fu conferita durante quella che il Messaggero definì una grande “Festa d’italianità a Vicchio”.
Il Congresso Provinciale Fascista lo elesse nel Consiglio Federale Fascista in rappresentanza del fascismo mugellano, preferendolo al borghigiano Agostini con 1899 voti contro 891. Nell’agosto 1924 ne divenne Vice-segretario. Nel settembre 1925 fu nominato Cavaliere della Corona d’Italia insieme con Luigi Santoni Guidi. Per tutto questo periodo mantenne la carica di Segretario Politico del Fascio di Vicchio. Il 2 maggio ebbe a Palazzuolo di Romagna, oggi Palazzuolo sul Senio, una medaglia d’oro per aver “tenuto con solerzia, competenza ed amore l’ufficio di Commissario Prefettizio di quel Comune". Intanto ,oltre che Fiduciario di Zona e Centurione della Milizia Volontaria Nazionale, divenne Triumviro della Federazione Provinciale Fascista. Fu il suo titolo forse di maggior prestigio. 
Il 1926 fu l'anno della riforma podestarile, ovvero l'eliminazione dell'elettività delle autonomie locali, in particolare i comuni, mediante la sostituzione del sindaco con l'imposizione della figura del podestà, scelto dal potere centralizzato, insomma dal fascismo. Marchetti era senza dubbio il personaggio più in vista di Vicchio, e la sua nomina a podestà avrebbe potuto sembrare cosa del tutto logica e automatica.
Cosa avvenne invece esattamente? Non è mai stato chiarito, ma in aprile 1927 non fu eletto alcun podestà. Fu nominato commissario prefettizio Luigi Santoni Guidi, apparentemente su proposta e incoraggiamento dello stesso Marchetti. Così il Messaggero dette la notizia:

La nomina a Commissario Prefettizio del nostro concittadino cav. Luigi Santoni Guidi, per quanto attesa, ha prodotto in paese la più lieta e favorevole impressione.
La scelta non poteva essere migliore. Fascista della primissima ora, Egli ha ricoperto la carica di Assessore Comunale in varie Amministrazioni. Presidente di tutte le Associazioni paesane, Giudice Conciliatore ed infine Consigliere Provinciale, si è sempre fatto distinguere per le sue ottime qualità di gentiluomo, di cittadino integerrimo, di benefattore del popolo.
(…) La grandiosa ed imponente dimostrazione che i cittadini vollero tributargli mercoledì scorso, sta a testimoniare con quanto piacere sia stata accolta la di Lui nomina a Commissario Prefettizio, che prelude sicuramente quella a primo Podestà di Vicchio.
(…) il nostro Sindaco cav. Marchetti improvvisò un bellissimo ed ispirato discorso, dicendosi lieto di avere anche egli contribuito affinché il cav. Santoni Guidi accettasse la nomina di Commissario, ritenendolo la persona più adatta a ricoprire tale carica.

Quando nel luglio seguente venne costituito a Vicchio il comitato dell’Opera Nazionale Balilla, Marino Marchetti – tuttora Segretario del Fascio - ne venne eletto Presidente. Ma per lui la fine, o meglio questo lento dissolversi era iniziato. Di sicuro, la mancata nomina non significò per lui neanche la destinazione verso incarichi di livello nazionale, come si sarebbe potuto pensare con un ragionamento in calcio d'angolo. Il Messaggero, da allora in poi, lo menzionò solo di sfuggita, per esempio quando partecipò al funerale di un fascista, o a una festa religiosa. Nel 1928 alla presidenza dell’O.N.B. fu chiamato Santoni Guidi.

Fascisti alla stazione di Vicchio, s.d.

Il 14 aprile 1929, sul n. 15, il Messaggero scrisse, in un trafiletto senza titolo:

Il giorno 15 aprile corr. con una cerimonia intimissima, causa il grave lutto della sposa, avrà luogo in Firenze il matrimonio della gentile signorina Maria Pia Giusti, figlia del professore arch. Comm. Ugo Giusti, col cav. Marino Marchetti, già Sindaco fascista di Vicchio e membro della Federazione Provinciale Fascista. Il Messaggero manda agli sposi rallegramenti ed auguri.

Maria Pia Giusti nacque nel 1910, quando i genitori (Ugo ed Eugenia Scotti) non erano ancora sposati. Il matrimonio avvenne nell’ottobre 1912, dopodiché Maria Pia fu legittimata. Del padre della sposa Ugo Giusti (1880-1928), architetto liberty meno noto che grande, scriverò a breve in un altro post.
Sul numero seguente del settimanale, un articolo più lungo dal titolo Le fauste nozze Marchetti-Giusti forniva maggiori particolari, ma l’incipit era piuttosto atipico:

Coronamento di un blando sogno d’amore [!], sono state, lunedì scorso, le fauste nozze celebrate tra il cav. Marino Marchetti, (…) e la gentil signorina Maria Pia Giusti, figlia del compianto architetto professore comm. Ugo Giusti. Dato il recente grave lutto della sposa le nozze sono state celebrate nell’intimità famigliare.

La cerimonia religiosa si svolse in Santa Lucia al Prato, quella civile in Palazzo Vecchio. Il seguito dell’articolo smentisce decisamente l’intimità famigliare dichiarata in principio, descrivendo (diremmo oggi) un sontuoso lunch seppure con ospiti non numerosi; ugualmente in contrasto con il lutto della sposa, si legge più avanti: “Agli sposi gentili, che erano raggianti di felicità, brindarono S.E. l’on. Gino Sarrocchi, l’on. Morelli, il Console Baldi, tutti facendo caldi voti di perenne felicità.”

Inaugurazione del Monumento ai caduti di Vicchio, novembre 1925
Quindici giorni dopo le nozze, il 1° maggio Marino Marchetti lasciò Vicchio e si stabilì a Firenze.
Le notizie su Marino Marchetti si fanno a questo punto ancor più frammentarie. Marchetti mantenne con ogni probabilità i contatti con Vicchio, ricomparendo tuttavia solo occasionalmente in cerimonie ufficiali non di particolare importanza, riguardanti per lo più la M.V.S.N di cui era Centurione. Nel 1931 sedò una rissa nel centro di Vicchio. L'anno seguente fu notato, con la moglie, tra i partecipanti alla Festa degli Alberi a Villore. Sempre nel 1932 nacque il figlio Giancarlo. Nel dare la notizia, il Messaggero del Mugello precisò che Marchetti era “attualmente Segretario Politico dell’Antella e di Bagno a Ripoli”. Quando, nel dicembre 1932, morì il settantaseienne padre Carlo, egli non partecipò di persona al funerale. Fu l'ultima volta in cui fu menzionato dal Mesaggero, che chiuse nel 1933.
Tutto ciò non sta a significare che Marchetti finì in rovina. Al contrario. Quando nel 1938 fu fatto il censimento delle abitazioni disponibili da parte del Comitato Comunale di Protezione Antiaerea, il Cav. Marino Marchetti, residente a Firenze in Piazza Beccarla 2, metteva a disposizione Villa Pilarciano in Padule (9 stanze; 4 letti; locali dichiarati di lusso; preferibilmente a un fratello con moglie e figlio) e Villa Bricciana in San Martino a Scopeto (12 stanze; 6 letti; locali dichiarati per ceto medio; con richiesta di £. 500 mensili di pigione).
Nello stesso anno, però, il Comune richiese al Prefetto l’autorizzazione a stare in giudizio contro di lui, in quanto aveva acquistato due colombari al cimitero di Vicchio, per i quali aveva versato un acconto di £. 600, ma, nonostante le reiterate sollecitazioni, non si decideva a saldare il debito di £. 1.000.

Fascisti davanti alla Casa del Fascio, s.d.

Durante la Seconda Guerra Mondiale Marchetti non si smentì. Dai documenti del Comitato di Liberazione Nazionale si apprende che  aderì alla Repubblica Sociale e al Partito Fascista Repubblicano: “Squadrista; Marcia su Roma; Sciarpa littorio; senior della Milizia; fascista repubblicano. Uno dei fondatori del Fascio locale. Ha preso parte a spedizioni punitive contro antifascisti. Già segretario del Fascio locale. Ex amministratore comunale. Capitano in servizio con i tedeschi. Elemento ambizioso, privo di scrupoli e di ogni senso della morale. Attualmente al nord.” Ma al nord dove? Non se ne venne a capo.
In un elenco senza data sempre del C.L.N. Marchetti figura tra gli squadristi "particolarmente responsabili". Viene definito “uno dei massimi responsabili della rovina del paese, Console della M.V.S.N., attualmente in servizio con i tedeschi". Ma figura anche, insieme con Giovanni Materassi, Giovanni Dreoni e i fratelli Vittorio e Nello Magherini, tra i “responsabili, secondo l’opinione pubblica, di omicidio commesso in località Sagginale”. Si allude qui a un fatto di sangue risalente al 1921. Una spedizione punitiva, organizzata da squadristi per vendicare il maltrattamento di un paio di loro da parte della popolazione della frazione di Borgo S. Lorenzo, degenerò in uno scontro a fuoco in cui perse la vita il 57enne Giuseppe Margheri.
Su richiesta del Collegio Professionale dei Periti Agrari, il C.L.N. informerà nel 1946 che Marchetti

è persona di moralità indubbiamente pessima, è stato fascista, squadrista, prese parte a spedizioni punitive in Paese, seminando il terrore ovunque, provocatore e violento. A [sic.] pure rivestito cariche di una certa importanza quale ad esempio Podestà del Comune di Vicchio nell’epoca 1929-30-31 [abbiamo visto che non fu così], inoltre fu pure presidente della cooperativa Edili di Vicchio, dove dovette subire un processo per emettere assegni a vuoto per oltre 300.000 lire prelevando dalla Banca Agricola Italiana a quell’epoca con sede a Torino. Fu pure senior della M.V.S.N. aderì e collaborò attivamente al movimento fascista repubblichino.”

Sempre nel 1946 Marchetti compare su un elenco su un registro del Tribunale di Pisa, come collaborazionista. È l'ultima traccia su di lui che riuscii a reperire quando realizzai la ricerca. Una traccia niente affatto riabilitativa.

Cosa sia stato in seguito di lui non ci fu verso di sapere, né tuttora si può comprendere  come mai questo individuo venne d'improvviso emarginato dal regime. All'epoca della ricerca non lo scrissi esplicitamente, ma ipotizzai, non senza una certa romantica ingenuità, che il fascismo non apprezzasse il suo legame con una - allora - minorenne. Ora penso - ma ripeto, non si può che formulare ipotesi - che quegli assegni a vuoto per oltre 300.000 lire   abbiano ben maggiori probabilità di essere un buon motivo perché Marchetti venisse, con discrezione ma senza tanti complimenti, ostracizzato.

Ringrazio Adriano Gasparrini che, con la cortesia di sempre, mi ha fornito la foto d'apertura, in cui si vede il Principe Umberto a Vicchio insieme con Marchetti con fascia da Sindaco, e il ritratto del medesimo.
Le altre foto appartengono all'Archivio Fotografico del Comune di Vicchio.





giovedì 1 marzo 2018

Quella stazione senza paese



Il bambino del treno è un bellissimo romanzo di Paolo Casadio (Piemme 2017).
Ho conosciuto Paolo in occasione della presentazione del libro alla Biblioteca di Vicchio, il 27 gennaio 2018. Giustamente il giorno della memoria. Ancor più giustamente Vicchio. Perché tutta la vicenda narrata si svolge in una frazione vicchiese nel cuore dell'Appennino, oggi del tutto disabitata.

Il palcoscenico centrale è la Stazione di Fornello. Una stazione senza paese. Fruitori erano gli abitanti delle tante case sparse intorno, all'epoca dei fatti traboccanti di vita(lità). Si sarebbero svuotate inesorabilmente nel secondo dopoguerra. La stazione fu dismessa nel 1968, giusto cinquant'anni fa. Nel 1935 vi era approdata - questa la finzione del romanzo - una giovane famiglia romagnola ancora in fase di completamento: il capostazione Giovannino, la moglie Lucia dai capelli di frumento, il loro figlio Romeo che al loro arrivo era ancora in pancia, il cane Pipito.

La stazione di Fornello, 2012
Preferisco evitare di raccontare la trama, ma rimarcare il crescendo di tensione che Paolo ha saputo costruire partendo da pochi elementi che dapprima rimangono sullo sfondo, apparentemente con la sola funzione di precisare in che epoca siamo; ma che, man mano che si procede, si espanderanno a dismisura e con furore, in un crescendo allucinante di importanza e gravità. Per deflagrare nel 1944. In parallelo, la funzione di protagonista sarà ben presto guadagnata dal bambino che cresce. Il bambino del treno, appunto, il quale, scontrandosi con la tragedia montante, reagisce da par suo, con le risorse che la sua età gli mette a disposizione, e che sfrutta fino in fondo. E non solo: decide che vuole diventare ebreo. Per comprenderne i motivi va letto il libro.

La stazione vista da Case Pian Bertozzi, 2002

Nonostante la stazione sia - lo ripeto - il palcoscenico centrale della vicenda, uno dei meriti di Paolo è quello di aver saputo restituire vita e dignità a una sorta di - verrebbe da dire - autentica etnia, oggi praticamente inghiottita dall'oblio e sulla quale non si è mai scritto o parlato, o almeno non quanto meriterebbe: gli abitanti delle case sparse.

Case Brancobalardi, 2008
Case. Casolari. Isolati gli uni dagli altri, ma ciascuno con la sua propria denominazione. Case Brancobalardi, Le Casette, Case Pian Bertozzi, Piandolci. E altre ancora. Quelle che compaiono nel romanzo sono state meta, ormai diversi anni fa, di vagabondaggi da parte del sottoscritto, a volte in solitaria, a volte insieme con il mio amico e vicino di casa Gianni Pieri. I sentieri che vi conducevano sono oggi spesso difficili da identificare, e il rischio di perdersi è spesso alto (una volta mi capitò), ma Gianni conosce la zona meglio di Google Maps. Come si vede dalle foto che scattai, le case sono ormai niente più che ruderi. Anche se rimangono tracce forse indistinte ma sufficienti a far intuire quanta vita vi sia trascorsa.

Piandolci, 2002
Questa vita, Paolo Casadio l'ha riportata alla luce in tutta la sua straordinaria concretezza e, fatto importantissimo, senza mai scivolare nella retorica. Il rischio era alto, sia da un lato: "Ah, bei tempi andati, quando si viveva a diretto contatto con la natura e il grano lo battevano a mano [sì: gli altri!]"; sia da quello opposto: "Ah, i poveri contadini, vittime del padrone e del fattore, morivano sempre di fame, oh, che vita terribile...!". 
No. La vita di chi abitava le case sparse era davvero quella narrata da Paolo, nel bene e nel male. Dignitosa, lieta, terribile, allegra, angosciata, monotona, avvincente. E difficile, certo. Ma altrove era forse tanto più facile?

Le Casette, 2010
Della stazione di Fornello si parlava talora sul Messaggero del Mugello, settimanale che per 50 anni, dal 1883 al 1933 raccontò le cronache della regione. Oggi è consultabile on line ed è una miniera di informazioni. In occasione dell'inaugurazione della luce elettrica a Gattaia, estremo centro abitato prima dell'Appennino e il più vicino alle case sparse, si scrisse (sotto) del progetto per una strada rotabile che collegasse la frazione a Fornello. Era il 21 aprile (Natale di Roma!) 1929.   



Leggiamo sempre sul Messaggero del 6 ottobre seguente che la signorina Lenina Lanini Cucciatti si attivò perché il progetto vedesse la luce. Cosa che non avvenne mai. Non era neanche il primo tentativo, e non fu l'ultimo. Adriano Gasparrini ritrovò negli archivi del Comune di Vicchio una raccolta di firme, circa il 1935-36, rivolta direttamente al duce, affinché dicesse una parola in più per la creazione di questa benedetta strada. Giunse, non proprio immediatamente, né firmata da Mussolini, una risposta in retorico-burocratese da cui si poteva decifrare che mancavano i soldi. Mancavano sempre i soldi. Poi gli avvenimenti precipitarono, come tutti sanno e come Paolo Casadio ha saputo non solo narrare ma far percepire in modo palpabile a chi legge il suo romanzo.
Una parentesi per Lenina, figlia di un possidente del posto, donna vulcanica e generosa, che animò instancabilmente la vita di Gattaia promuovendo a getto continuo manifestazioni per il duce e per la patria. Non tardò a pagare la sua devozione al fascismo ben oltre le sue colpe, in fondo praticamente nulle. I tedeschi in ritirata fecero saltare per aria la sua villa, e lei si ritrovò a vivere nell'unica stanzetta sul retro rimasta agibile, isolata e abbandonata da tutti. Un giornalista americano la incontrò nel 1948, e la descrisse molto grassa, molto erudita, molto infelice. Si spense nel 1980.

Messaggero del Mugello,
6 ottobre 1929
La stazione di Fornello ha ritrovato negli ultimi anni una certa notorietà. Viene recensita su Trip Advisor, ha una voce su Wikipedia, un sito, e, come si legge su quest'ultimo, è stata inserita all’interno dei Censimento dei Luoghi del Cuore del FAI (Fondo Ambiente Italiano) ed è stato possibile votare online ottenendo grande visibilità. Il CAI, il Club Alpino Italiano, ha quasi completato la realizzazione di un sentiero che consente agli escursionisti di raggiungere la stazione senza mai venire in contatto diretto con la strada ferrata. Iniziative lodevoli ma, mi diceva proprio il mio amico Gianni, medaglia con un suo rovescio: "Il sentiero è ben tracciato e ben segnato, ma si sta popolando di cartacce e rifiuti la cui presenza, o meglio ancora la cui esistenza stessa era, fino a pochi anni fa, assolutamente inconcepibile nel cuore dell'Appennino."

Il bambino del treno, la cui lettura - l'avrete capito - raccomando caldamente, vanta anche un 'primato' per il quale sono grato a Paolo Casadio: è il primo testo che, nella bella e ricca - quanto opportuna - bibliografia finale, cita questo blog. Il riferimento è alla storia degli Ebrei ribelli, che pubblicai nell'aprile 2017.