mercoledì 25 aprile 2018

Dalla mosca di Giotto alla rosa del Paladino


La storiella dello scherzo di Giotto al suo maestro Cimabue la conoscono tutti. Anche se è solo una storiella. Ecco come la riporta Giorgio Vasari:

Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d’una figura che esso Cimabue avea fatta una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore. [Giorgio Vasari, Le vite, ed. Giuntina, 1568, vol. 2, p. 121.]

Che sia una storia vera, ripetiamolo, è altamente improbabile (*). Lo stesso scherzo viene attribuito al Mantegna. Quello di Giotto ha però avuto grande successo, e forse non c'è da sorprendersene. In fondo esprime e riassume bene un fatto epocale: il reale stava compiendo  una trionfale rentrée nella pittura. Giotto il realista inganna Cimabue il simbolico. E lo supererà, non solo in senso dantesco (credette Cimabue ne la pittura ecc.), ma soprattutto nel senso che, dopo dieci secoli in cui generazioni e generazioni di pittori  avevano prodotto simboli, il ragazzo di bottega annunciava che si sarebbe tornati a riprodurre la realtà. Quello stesso ragazzo che di lì a poco, chiosò mirabilmente Cennino Cennini, rimutò l'arte di greco in latino, e la ridusse al moderno. Quello stesso ragazzo che, in definitiva, inventò la pittura così come ancora oggi è concepita.

Ad ogni modo, la mosca di Giotto non rappresenta una novità. La riproduzione al naturale della realtà, l'abilità degli artisti nell'imitare la natura erano in antico argomenti dibattuti a livello filosofico. E che livello. Il concetto di mimesis vide contrapporsi Platone ad Aristotele. Senza addentrarci nell'argomento, leggiamo cosa scrive Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C. in un celebre passo della sua Historia naturalis

Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore. Si racconta che poi Zeusi dipinse anche un fanciullo che portava l’uva sulla quale, al solito, volarono gli uccelli; onde, con la stessa spontaneità, si fece dinanzi al quadro adirato e disse: «Ho dipinto l’uva meglio del fanciullo, perché, se avessi fatto bene anche lui, gli uccelli avrebbero dovuto averne paura». [Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XXXV, 65-66, tr. it. Storia naturale, vol. V, Einaudi, Torino 1988, pp. 361-363.] (Ringrazio per le citazioni questo blog)

Sarà il Rinascimento a riproporre la questione dell'arte come imitazione del vero. Nel 1584  viene pubblicato il Trattato dell'arte della pittura, scoltura, et architettura, di Giovanni Paolo Lomazzo, pittore milanese, Diviso in sette libri. Nel capitolo dedicato alla virtù del Colorire, Lomazzo scrive: 


Non è dubbio, che tutte le cose ben formate, e condotte per disegno; e doppoi colorire secondo l'ordine loro non rendano il medesimo aspetto che rende la natura istessa in quel moto, o gesto. Peroché fino a gli cani vedendo altri cani dipinti dietro gl'abbaiano, quasi chiamandogli, e sfidandogli; credendo che siano vivi per la sola apparenza: non altrimenti che facciano vedendo se stessi in uno specchio; come si narra haver fatto un cane che né guastò uno c'haveva dipinto Gaudenzio sopra una tavola di un Christo, che portava la Croce, a Canobbio [sotto].

Gaudenzio Ferrari (ca. 1475-1546), Salita al Calvario
Lomazzo continua citando un tale Barnazano, fine paesaggista, il quale aveva dipinto fragole così realistiche da attirare i pavoni, che cercavano di beccarle, e Bramantino, che dipinse in una porta di Milano un famiglio così naturale che i cavalli non cessarono mai di lanciar gli calzi, finché non gli rimase più forma d'huomo. 
Federico Zuccari, nel suo L'idea de' pittori, scultori e architetti (1608), cita anch'egli Zeusi e Parrasio, e poi porta altri esempi di pitture che, stavolta, ingannarono gli umani: dal ritratto di Papa Leone X di Raffaello (sopra), davanti al quale attonito e meraviglioso restò il cardinal Pesia Datario, che presentò bolle, e calamajo, e penna a far la signatura inginocchiato; a un ritratto di Carlo V opera di Tiziano, posto su un tavolino e con il quale il figlio Filippo (futuro monarca dei Re, e dell'uno e dell'altro emisfero) si mise a discutere. Lo stesso Tiziano resterà poi talmente affascinato dai trompe l'oeil realizzati da Baldassarre Peruzzi nella Sala delle Prospettive di Villa Farnesina a Roma (sotto), da dover toccare con mano per sincerarsi che quelle colonne erano solo dipinte.


Solo l'ultimo degli aneddoti elencati può avere un fondo di verità. Il passare del tempo ha confermato l'inverosimiglianza degli altri racconti che, più che a figure retoriche come l'iperbole, fanno pensare al pescatore che raccontava di aver preso un pesce così grosso che la sola fotografia pesava tre chili. Ai tempi nostri non si hanno notizie di uccelli che cercano di beccare fotografie di grappoli d'uva, né di cani che abbaiano a cani in fotografia, né di cavalli che prendono a zoccolate gigantografie di persone che gli stanno antipatiche.

Filippo Paladini, Martirio di S. Agata.
Cattedrale di S. Agata, Catania
Sempre prendendola come storiella, quella riguardante Filippo Paladini meriterebbe forse maggiore notorietà. La racconta Paolo Russo nel suo "Un genio vagante... in giro nella Sicilia" Filippo Paladini e la pittura della tarda Maniera nella Sicilia centrale (Edizioni Lussografica, 2012).

Un anonimo testimone del Seicento riferisce un curioso episodio di cui fu protagonista Paladini al tempo in cui si trovava a Ragusa, dimorante presso il palazzo del nobile Leonardo Giampiccolo (...). Il pittore toscano, "uomo faceto e pittore straordinario", conoscendo la passione per le rose dell'aristocratico ragusano, decise di tirarvi uno scherzo, dando prova al tempo stesso della sua abilità: dipinse egli una rosa che sistemò tra quelle "rose naturali" da cui il Giampiccolo "molto traeva diletto", questi "ci credette e la prese, e alle risa del Paladino capì di essere stato burlato".

Racconterò la storia, inaspettatamente avventurosa, di questo pittore il prossimo 20 maggio nelle stanze della Villa di Poggio Reale alla Rufina (FI). Qui mi limito a pochi elementi riassuntivi, in modo anche da ...incuriosirvi. Filippo Paladini - o Paladino - (1544?-1615) nacque a Casi, frazione appunto della Rufina, ma lavorò a Malta e in Sicilia. Ciononostante, forte del suo solido retroterra, anche se ignoriamo il nome del suo maestro (Poccetti? Empoli? Passignano?), rimase toscano fino al midollo e fino alla fine dei suoi giorni. Viene definito manierista o tardo manierista, ma presuntuosamente sostengo che questi termini gli stanno stretti. In realtà Filippo, specie nell'ultimo periodo si portò oltre.
Filippo Paladini, Adorazione dei Magi.
Convento dei Cappuccini, Calascibetta (EN)
In un'epoca in cui il Concilio di Trento aveva dettato i canoni da seguire nelle immagini sacre, improntati alla sobrietà e alla chiarezza del messaggio e/o della storia narrata, Paladini non poté non tenere presente la lezione di Santi di Tito. Questi ricondusse la pittura nel solco della tradizione fiorentina, che aveva le sue radici in Giotto, sottraendola alle degenerazioni estreme della maniera. Filippo Paladini sembra seguirlo in un percorso che riscopre quel realismo e quel naturalismo che la Chiesa post tridentina non solo approva ma incoraggia. L'incontro con l'opera del Caravaggio avrà su di lui grande influenza, e arricchirà notevolmente il suo stile senza tradirlo. Il ciclo di pale d'altare realizzate nel 1613 per il Duomo di Enna, forse la sua opera più significativa, ce lo conferma. Potete vedere le cinque grandi tele in questa bella guida illustrata.
L'episodio della rosa, vero o più probabilmente inventato che sia, è ad ogni modo sintomatico non solo dell'abilità tecnica, ma anche della propensione di Filippo verso il naturalismo, verso la rappresentazione reale, e dunque verso il superamento di quello stile manieristico che, in Toscana come in Sicilia, ormai aveva fatto il suo tempo.
Se volete saperne di più su Filippo Paladini, non vi resta che segnare sull'agenda il pomeriggio del 20 maggio 2018, da trascorrere presso la Villa di Poggio Reale, Rufina (FI). Queste le coordinate. Ulteriori particolari a breve.

(*) esiste, in forma di variante, anche una barzelletta in cui il babbo di Giotto si è procurato delle terribili ustioni alla lingua perché il vispo suo figlioletto gli ha proditoriamente dipinto non vi dico cosa su una stufa rovente.

venerdì 13 aprile 2018

GABBATO LO SANTO 12. La mistica e l'erudita


Maria Bartolomea Bagnesi e Fiammetta Frescobaldi, a quanto è dato sapere, non s'incontrarono mai. Ebbero però molte cose in comune: l'epoca in cui vissero, l'appartenenza a famiglie facoltose, un'ardente fede religiosa, e le loro vite trascorse per la maggior parte immobilizzate a letto a causa, se non della stessa malattia, comunque di malattie terribili. I loro diversi modi di affrontarle condussero a due diversi destini post mortem.

Via de' Neri. I resti (meglio visibili sulla destra) dell'antico Palazzo Bagnesi

Maria Bartolomea nacque nel 1514 il 24 agosto, appunto San Bartolomeo, dalla famiglia Del Bagno o Bagnesi, che Malispini definisce molto antica. Machiavelli la include tra le famiglie guelfe e in seguito di parte nera. In via de' Neri esistono ancora casa Bagnesi (n. 11) e torre Bagnesi (25r), mentre la vicina via della Mosca era denominata in antico via de' Bagnesi. Silvano Razzi riporta notizia di una Beata Giovanna da Santa Maria in Bagno, monaca camaldolense, passata nella gloria di Dio nel 1105.


La vicenda umana di Maria Bartolomea è tutta imperniata sul contrasto tra l'infanzia felice, ancorché religiosa e morigerata e nonostante la morte della mamma, e le sofferenze da lei patite a partire dall'adolescenza, e che la costrinsero a letto per quarantacinque anni. La sua fede si rafforzava a misura che aumentavano i tormenti, da lei offerti al Signore. Dopo che ebbe preso l'abito di San Domenico nella propria stanza e fatto la professione, le sue condizioni migliorarono e poté alzarsi e recarsi in visita a conventi, in particolare quello di S. Maria Novella. Ma non durò molto. I dolori ripresero se possibile ancora più terribili, e Maria tornò costretta nel suo letto. Più volte ricevette l'estrema unzione. Più volte fu vista in una sorta di estasi. Ebbe il conforto di alcuni confessori tra cui Padre Alessandro Capocchi e Ser Agostino Campi da Pontremoli. Quest'ultimo, per farle da padre spirituale - e lo sarebbe stato per ventidue anni -, lasciò il suo lavoro di Pievano di Borgo San Lorenzo. Per quanto le fu possibile, fu prodiga di opere di carità e di parole buone per chi la visitava. La sua fama era diffusa in Firenze al punto che, quando rese l'anima stremata al Signore, il 28 maggio 1577, i tentativi della famiglia di seppellirla di nascosto, come lei aveva chiesto, fallirono. Al suo funerale parteciparono migliaia di fiorentini. Una lunga processione attraversò il Ponte Vecchio e Maria, secondo il suo volere, fu sepolta nel convento di S. Maria degli Angeli, oggi S. Frediano in Cestello. Un affresco di Giuseppe Servolini, nella foto d'apertura, raffigura l'episodio. S. Maria Maddalena de' Pazzi,  che attribuì a una intercessione di Maria Bartolomea una sua guarigione, ne divenne una devota. La beatificazione di Maria avvenne, a opera di Pio VII, nel 1804.

Via della Mosca, in antico chiamata Via dei Bagnesi.
Alla biografia di Maria sono stati aggiunti in seguito parecchi elementi posticci. Ad esempio che i dolori terribili la colsero la prima volta nel preciso istante in cui il padre le disse che era tempo di pensare a maritarsi. O che la tregua avvenne quando aveva 33 anni, età decisamente troppo evangelica...  In realtà dalla biografia scritta da Padre Alessandro - che la conobbe bene - non risulta nulla di simile. Lo stesso Alessandro non risparmia peraltro elementi agiografici quali le tentazioni che Maria continuò a subire lungo tutta la sua esistenza, ed eroicamente e puntualmente respinte. Vi aggiunge poi episodi curiosi, come a un certo punto l'invocazione da parte di Maria a S. Pantaleone, sconosciuto ai familiari, ma che si scoprì essere il Santo protettore della famiglia. O la sua predilezione per i capperi sotto aceto e per la cicerbita.

La Chiesa di S. Jacopo a Ripoli in via della Scala
Di Fiammetta Frescobaldi, la cui famiglia non ha particolare bisogno di presentazione, parla Giuseppe Richa (1756) nella parte delle sue Notizie istoriche delle Chiese fiorentine relativa alla Chiesa e Convento di S. Jacopo a Ripoli, riportando quanto riferitogli da Padre Vincenzo Fineschi, archivista di S. Maria Novella. Scrive tra l'altro quest'ultimo: 

Suor Francesca nacque di Lamberto Frescobaldi, e di Francesca Morelli, nobilissime famiglie di Firenze, l'anno 1523. Abbracciò in età di 13 anni la religione di S. Domenico nel Monastero di S. Jacopo di Ripoli, in cui dotata di ottimi costumi, fervorosa nella divozione, intenta sempre a leggere, e scrivere, lasciò molti attestati, del suo ingegno, e della sua pietà (...) Certamente doveva essere fornita di un grand'ingegno, di memoria, e di eloquenza per capire cose tanto sublimi, e varie, come ha fatto, ritenerle, porle in ordine, e descriverle con uno stile facile, piacevole, e talora anche critico: Ma ciò, che apporta più maraviglia, si è, che ella scrisse di sua mano tanti, e sì fatti volumi con tal  accuratezza di caratteri, che sembrano da una stamperia usciti. Egli è ben vero, che per lo corso di 38 anni soffrendo una contrazione di gambe, sarà stata dal Monastero di ogni ufizio esente, talché avrà avuto il campo di scrivere, e leggere Autori latini e italiani; ma non di meno sappiamo, che talora oppressa da' suoi fieri dolori, pazientemente gli soffriva, e spesso si faceva portare al Coro.

Enrica Viviani Dalla Loggia, nel suo Nei Monasteri Fiorentini (Sansoni 1946) ci dice che Fiammetta 

scrisse 30 volumi di storia in ottavo e tradusse 118 Vite di Santi dal Lippomanno e dal Surio, opere che purtroppo sono andate perdute (ma ciò che deploriamo di più è la scomparsa della sua corrisopondenza con i migliori letterati del tempo), e un libro di memorie del convento, dal 1575 al 1580. Suor Fiammetta arricchì inoltre il monastero di una preziosa collezione di libri regalatale dai suoi parenti ed amici, ed adornò la chiesa di un bellissimo reliquiario e di due quadretti con l'arcangelo Raffaele e il Santissimo Rosario.

L'ex convento di S. Jacopo a Ripoli in via della Scala
Nel 1941, sulla rivista Memorie domenicane fu pubblicato un catalogo delle opere di Fiammetta ancora esistenti. Si tratta di un totale di 18 volumi manoscritti. Di Della sfera del mondo, divisa in nove parti, ne resta(va)no solo le ultime tre. Fra gli altri titoli, una Storia delle Indie orientali ed occidentali, parecchie vite di Santi tra cui Vite di 12 santissimi padri che fiorirono nella vita monastica, nelle parti orientali, e Le Vite del Serafico Padre S. Francesco istitutore de' Frati Minori e di altri Santi del medesimo Ordine, da essa tradotte dal latino. Della concorrenza, verrebbe da dire.
Infine, Prato fiorito. Merita stavolta riportare il lungo ed eloquente titolo per intero: Il Prato fiorito nel quale come risplendenti fiori sono poste molte attioni eroiche degne di essere imitate con ogni accuratezza da chi brama far profitto nella vita christiana et religiosa raccolte da diversi scrittori greci et latini per comodità degli studiosi da suor Fiammetta Frescobaldi del ordine di s. Domenico in Fiorenza nel ministero di s. Iacopo di Ripoli MDLXXVNe copio un passo dalla dedica a Suor Angela Malegonnelle.

...imperoché non sapendo punto di grammatica né ammaestrata nella arte del ben dire [questo testo] non merita tanto favore, nondimeno le cose che in questo libro si contengono considerate per loromedesime sono bellissime, anzi son tanti vaghissimi fiori, questo sono le cose che in esso si contengono; quello che c'è di male ne è la causa la mia imperitia, quello che c'è di buono ne è da rendere gratia al padre de' lumi dal quale e sanza il quale niente di buono si può fare, il resto tutto imputerete all'ignorantia mia...

La difficoltà di accedere ai manoscritti conservati nell'archivio della famiglia Frescobaldi, che sono la maggioranza, è stata fra le cause per cui gli studiosi si sono concentrati sulle due opere conservate presso l'Archivio di S. Maria Novella, con le sigle IB65 e IB66, dai rispettivi titoli (li abbrevio entrambi) Cronica del sacro ordine de’ frati Predicatori ff. «compita del mese di giugno l’ano 1579», e «Cronica dell·sacro ordine di Santo Domenico, in particulare la fondazione de’ conventi et monasterii di esso ordine nella alma città di Firenze, massimo di quel di SMN et di Sa·Iacopo vocato Ripoli, con aggiunta di altre molte varie cose…, cavato ogni cosa con diligenzia da varii autori… - MDLXXIX»

Una pagina da IB65
Giovanna Pierattini, sempre su Memorie domenicane, ne traccia un ampio riassunto, se di riassunto si può parlare, diviso in 8 capitoli pubblicati tra il 1939 e il 1941. Più di recente, Elissa B. Weaver ne ha scritto in Il velo, la penna e la parola (Nerbini 2009). Ne emerge il ritratto di una donna del Rinascimento, di profonda fede religiosa, certo, quanto straordinariamente moderna. L'attenzione per quanto accade all'interno del monastero è saggiamente bilanciata con gli avvenimenti storici di cui Fiammetta è testimone. Lo stile è del pari asciutto e quasi sempre privo di quella retorica che all'epoca e anche nei secoli seguenti avrebbe spesso appesantito tanti testi. Mi limito a trascrivere un particolare divertente che non conoscevo, in margine alle fastose nozze della veneziana Bianca Cappello con il Granduca Francesco I de' Medici, avvenute nel 1579:

Ogni cosa sa[re]bbe ita bene se [e] viniziani (non però tutti) non fussino stati trovati alle porte avere furate le argenterie in non poco numero, sanza altri danni di trine d'oro e frange spichate da' paramenti de' letti. Queste cose quanto abino intorbidata tale festa si lascia al giudizio di chi legge, però qui non ne dirò altro.

IB66, l'ultima pagina scritta da Fiammetta.
Si comprende già da questo passo come Fiammetta non cercasse affatto di essere imparziale nel raccontare, ma al contrario faceva sempre trasparire le sue opinioni. Non solo. "La Frescobaldi" scrive Weaver "in tutte le sue opere cita scrupolosamente le sue fonti. Più spesso ne fa un elenco all'inizio dell'opera" E all'inizio dell'IB66 nomina tra le altre le opere di Vasari, la storia di Santa Maria Novella che stava allora scrivendo fra Modesto Biliotti che era il confessore delle monache di S. Jacopo, e uno scritto sulle comete di un medico di Bologna, Baldassarre Pisanelli. Ed è a Pisanelli che Fiammetta a un certo punto quasi si rivolge con queste parole:

le cose fatti dagli huomini di propria volontà, non si devono attribuire alle stelle, imperocché l'uomo savio a quelle signoreggia.

Quasi un anticipo di Illuminismo, comunque una sorta di sconfessione dell'astrologia sbalorditiva nel Cinquecento.
Fiammetta si spense nel 1586. Di lei non sono riuscito a trovare alcuna immagine. In tempi recentissimi si è assistito, se non a una riscoperta, per lo meno al risvegliarsi di un certo interesse sulla sua opera. Tuttavia si tratta sempre di un interesse che riguarda l'erudita donna del Rinascimento e non la religiosa. Contrariamente a quanto avvenne per Maria Bagnesi, non furono mai avanzate proposte per la sua beatificazione. Magari, certo, manca(va)no gli elementi necessari (eventi miracolosi, ecc.). Ma, nella mia ingenuità costituzionale, non posso fare a meno di pensare che la figura di una donna straordinariamente colta, dalle conoscenze sterminate anche in campi al di fuori di quelli religiosi, e di conseguenza indipendente, pur nella vita irreprensibile e nel rispetto sempre rigorosamente mantenuto della vita conventuale, potesse all'epoca risultare come incompatibile con la santità.  

Ringrazio l’Archivio di S. Maria Novella (Provincia Romana di S. Caterina da Siena, Ordine dei Frati Predicatori - Domenicani) che mi ha gentilmente permesso di pubblicare le foto dai manoscritti originali di Fiammetta Frescobaldi








 

domenica 1 aprile 2018

Il Mugnone e un pesce d'aprile di 25 anni fa

L'esondazione del Mugnone avvenuta il 30 ottobre 1992 non raggiunse le dimensioni apocalittiche della famigerata alluvione del 4 novembre 1966, ma fu lo stesso terribilmente devastante. Il suo ricordo oggi può essersi appannato anche se non del tutto spento, ma all'epoca dei fatti che sto per narrare era ancora vivissimo tra i fiorentini - e non solo: Poggio a Caiano fu sommerso -. 

Il 1° aprile 1993 la prima pagina di cronaca di Firenze su La Repubblica riportava in basso un articolo a quattro colonne, non molto appariscente, dal titolo: "Deviare il Mugnone? Secondo i Verdi si può". L'occhiello diceva: "Proposta presentata in Consiglio Comunale", il sottotitolo: "Il progetto prevede di ridare al torrente il suo antico percorso, facendolo sboccare in Arno presso il Ponte Vecchio".

L'articolo aveva un tono abbastanza asettico. Iniziava così: 

"Restituire al Mugnone il suo alveo originale, fare del Mugnone una risorsa e un'attrattiva per la città, e a un tempo poterne controllare e monitorare le acque affinché fenomeni drammatici come lo straripamento del 30 ottobre scorso non si ripetano mai più. Con queste motivazioni il gruppo consiliare dei Verdi a Palazzo Vecchio ha presentato un progetto ambizioso quanto dettagliato, che ha incontrato immediato interesse presso l'intero Consiglio Comunale."

Il relatore Verde [in realtà mai esistito] Ranuccio Ottieri  - continuava l'anonimo articolista - ha illustrato nei dettagli gli interventi da compiere, che quasi mai avrebbero carattere particolarmente distruttivo, implicando l'abbattimento di palazzi solo in un breve tratto, mentre il nuovo percorso del torrente si ricaverebbe nella quasi totalità da una serie di strade, le quali verrebbero trasformate in tutto o in parte in alveo tramite profonde escavazioni.

L'imbocco di Borgo Pinti da Viale Matteotti

Secondo il progetto, il Mugnone, prima di passare sotto al Ponte Rosso [foto d'apertura], verrà deviato e percorrerà una galleria sotterranea creata ad hoc lasciando sulla destra il nuovo parcheggio del Parterre. Proseguirà poi sotto piazza della Libertà fino a sboccare all'inizio di Viale Matteotti. Il torrente scorrerà a cielo aperto sul lato destro del viale (è l'unico tratto in cui andranno abbattuti i palazzi), per svoltare in Borgo Pinti.

Borgo Pinti

Borgo Pinti, a parte i marciapiedi, verrà trasformata totalmente in alveo. Analogo destino, dopo Piazza Salvemini, per le strade successive: Via Palmieri e Via dell'Isola delle Stinche (il cui isolato, nel progetto, verrà circondato dall'acqua e tornerà ad essere una sorta d'isola, come quella antica da cui prende il nome) fino a Via dell'Anguillara. 

Via dell'Isola delle Stinche

A questo punto il Mugnone descriverà una curva a S, prima a destra, poi - scorrendo in Piazza San Firenze - a sinistra, e proseguirà per via dei Leoni e via dei Castellani, gettandosi in Arno all'altezza di Piazza dei Giudici. 

Lo sbocco di Via dell'Anguillara in Piazza S. Firenze
"Il percorso - spiega Ottieri - ci sembra il più aderente possibile al tratto seguito dal Mugnone per secoli fino al Medioevo. Ovviamente era necessario adattarlo alle strade che in seguito sono state realizzate: in questo modo il costo di realizzazione diminuisce drasticamente. Sono previsti attraversamenti all'altezza di Via della Colonna, Via degli Alfani - Via dei Pilastri, Piazza Salvemini, Via Ghibellina. La realizzazione del nostro progetto, da un lato, consentirà di avere un controllo continuativo sullo stato delle acque del torrente; dall'altro porterà a profonde trasformazioni dal punto di vista dell'assetto urbanistico del centro cittadino e soprattutto dal punto di vista del traffico, trasformazioni di cui i fiorentini sentono da anni la necessità e che non è più possibile continuare a procrastinare. Inoltre, è stata formulata l'idea di creare, all'altezza della nuova foce, un porto fluviale non dissimile da quello ivi realizzato in antico dagli Etruschi, e di istituire una busvia acquatica in grado di risalire fino al Ponte alla Badia, fornendo così un collegamento rapido e non inquinante tra le due zone. 

Piazza dei Giudici

Non solo: il lungo tratto del torrente dal Ponte Rosso all'Indiano potrà divenire una vasta area che tornerà a disposizione della cittadinanza, e sul cui recupero e utilizzo stiamo interpellando due urbanisti francesi, i quali, entusiasti del progetto, ci hanno già proposto diverse soluzioni. La più realistica ci sembra al momento quella di una strada di scorrimento veloce su terrapieno nel percorso dal Ponte Rosso fino al Ponte alle Mosse; dal Ponte alle Mosse in poi una serie di villette a schiera intervallate a spazio verde attrezzato e infrastrutture di pubblica utilità."
Il Sindaco Giorgio Morales - proseguiva l'articolo - ha espresso notevole interesse e apprezzamento per la proposta del gruppo Verde, proposta da lui ritenuta del tutto concreta e realizzabile. Gli hanno fatto eco i capigruppo di tutti i Partiti rappresentati in Consiglio, sia di maggioranza sia d'opposizione, i quali si sono dichiarati unanimemente favorevoli ad un'attuazione del progetto in tempi brevi. Il Presidente della Giunta Regionale Vannino Chiti, in una nota, ha dichiarato di associarsi al coro di consensi e di essere pronto a muovere subito i primi passi per concedere le autorizzazioni necessarie. Tutto lascia pensare che in pochi mesi ("entro autunno" ha assicurato il Sindaco) il progetto possa senz'altro partire. 

Il Ponte alle Mosse

L'articolo si concludeva così:

I fiorentini potranno dunque attendere il prossimo autunno sapendo di non dover più osservare preoccupati il livello del Mugnone ogni volta che piove, e considerare il loro torrente non più come un pericolo, bensì come una ricchezza e una risorsa culturale e ambientale importante, da salvaguardare e gestire oculatamente (non dimentichiamo che il Mugnone è corso d'acqua assai ricco di pesci).

In redazione ci fu chi affermò che, più che un pesce d'aprile per i lettori, era uno scherzo per le centraliniste del giornale, le quali vennero ovviamente sommerse di chiamate. Non si seppe con precisione quanti fiorentini ci cascarono, malgrado l'ultima frase. Molti, forse, si limitarono a pensare a uno dei classici progetti destinati a rimanere sulla carta. Altri telefonarono in redazione complimentandosi, ma aggiungendo di aver capito che era un pesce d'aprile non tanto dal progetto quanto dall'idea, ancora più inconcepibile, dell'unanimità di pareri in Consiglio. Lo scherzo finì anche sui telegiornali nazionali, nei fatidici elenchi dei pesci propinati nella giornata.
Un deputato fiorentino dell'opposizione presentò un'interpellanza parlamentare, a causa della quale divenne in seguito per mesi lo zimbello dei colleghi. Fu per questo, si mormorò, che rinunciò a candidarsi di nuovo alle elezioni seguenti.

Se non ricordate nulla di tutto ciò, rassicuratevi. In realtà nel 1993 non ci fu nessun pesce d'aprile sul Mugnone. C'è stato semmai un pesce d'aprile nel 2018, ed è questa storia che mi sono inventato di sana pianta. La ricostruzione dell'antico corso del Mugnone comunque è corretta.